di Maurizio Quilici *
Lasciate che torni a parlare della questione del cognome, ossia delle ipotesi – contenute in
varie proposte di legge – di modificare l’attuale sistema anagrafico aggiungendo al cognome
paterno quello materno. Su questo notiziario abbiamo seguito l’evolversi di queste proposte fin
da quando – era l’estate del 1996 – l’on. Giuliano Pisapia (Prc), allora presidente della
Commissione Giustizia della Camera, depositò una proposta di legge che prevedeva,
drasticamente, la sostituzione del cognome paterno con quello materno. L’allora ministro per le
Pari Opportunità, Anna Finocchiaro, si associò e definì “sacrosanto” che i figli “portino il nome
della madre che li porta in grembo” (più tardi avrebbe rettificato questa posizione parlando
della necessità di assegnare anche il cognome materno). Ci fu un coro di reazioni pro e contro.
Per esempio si dichiarò a favore il sociologo Franco Ferrarotti, mentre Tina Lagostena Bassi,
battagliera avvocatessa femminista, la giudicò “un’esagerazione”. L’I.S.P. diffuse un
comunicato – ripreso da numerosi giornali – nel quale si stigmatizzava che al privilegio del
cognome paterno venisse semplicemente contrapposto un privilegio di segno opposto e si
diceva “certamente da preferire l’ipotesi del doppio cognome”.
Dal 1996 è passato un buon numero di anni, ma l’ipotesi di cambiare il sistema attuale di
assegnazione del cognome non ha smesso di serpeggiare. Quasi esclusivamente – va detto – a
livello politico, il che toglie, a mio parere, una buona parte di dignità al problema, il quale non
sembra affondare le sue radici in un malcontento popolare o in una presa di posizione diffusa
nel mondo della cultura e della scienza. Non mi pare che siano state fatte dimostrazioni di
piazza per sostenere la necessità di cambiare il cognome, né che gli “esperti” – storici,
psicologi della famiglia, antropologi, giuristi, sociologi… – abbiano sentito il bisogno di lanciarsi
in un pubblico, serrato dibattito.
Giuseppe Magno, magistrato che si occupò di questa questione in rappresentanza dell’Italia
nell’ambito del Comitato di cooperazione giuridica (CDCJ) del Consiglio d’Europa, ha scritto su
questo stesso notiziario: “In pratica, si potrebbe dire che il cambiamento non interessa a
nessuno, ma è strenuamente sollecitato da poche persone, che non hanno fra loro legami
visibili esternamente, essendo apparentemente accomunate solo dal fortissimo impegno di
promuoverlo nei campi (legislativo, giudiziario, culturale) in cui si trovano ad operare. Altri si
accodano, spesso senza conoscere l’argomento nei suoi esatti termini”. (ISP notizie n.
1/2008). Di Magno si può rileggere il modo in cui, a più riprese, la questione è stata trattata a
Strasburgo (fin dal 3 marzo 1995) e soprattutto i relativi, illuminanti retroscena. (Cfr. anche
ISP notizie n. 2/2008 e 3/2008).
L’intervento del giurista prendeva spunto da un articolo di Massimo Corsale, ordinario di
Sociologia alla “Sapienza” e Vicepresidente del nostro Istituto, il quale alla fine del suo
intervento si chiedeva: “A questi nuovi padri, che con passione si impegnano a rafforzare la
propria presenza effettiva vicino ai figli (…) vogliamo togliere anche la simbolica gratificazione
di trasmettere loro il proprio cognome? E a quelli che tendono invece a sfuggire alle proprie
responsabilità genitoriali, vogliamo dare anche la sanzione legale della loro marginalità nel
rapporto di filiazione”? (ISP notizie n. 4/2007).
Di cognome si torna a parlare di questi tempi. Non c’è ipotesi di revisione del Diritto di
Famiglia, in tutto o in parte, che non prenda in considerazione l’aspetto del cognome.
Compresa quella a cui sta lavorando una delle cinque Commissioni sostenute dal Partito
Radicale e coordinate dal giudice Bruno De Filippis (vedi pag 2). Quindi, stiamo pur certi che
prima o poi il cambiamento ci sarà. Ora, io non sono per niente contrario all’aggiunta del
cognome materno a quello paterno: mi sembra un giusto riconoscimento e un doveroso
principio di equanimità, se i figli si fanno in due. Quello che temo è che una simile operazione
sottenda, più o meno consciamente, la volontà di dare l’ultima spallata ad una paternità
abbondantemente delegittimita e svuotata di contenuti, una paternità ormai vacillante,
incapace di svolgere i suoi ruoli e le sue funzioni. Quei ruoli e quelle funzioni il cui
indebolimento si riscontra regolarmente ogniqualvolta si parla di immaturità giovanile,
bullismo, comportamenti dissociali minorili e persino derive politiche segnate da forte
estremismo. Per non parlare della delicatezza dei meccanismi da assumere per il passaggio
generazionale, quando uno dei due cognomi dovrà inevitabilmente cadere.
Penso anche che sotto l’apparente semplicità di un gesto così “giusto”, così “logico”, possano
nascondersi profonde implicazioni sociali, psicologiche – radicate da più di mille anni – delle
quali non siamo in grado di valutare la portata (e, soprattutto, sulle quali nessuno si
interroga). Nel 1996 lo psicoanalista Massimo Ammaniti osservava che “se la certezza di
essere madre nasce in ogni donna dal fatto di aver portato il figlio dentro di sé e di averlo
messo al mondo, per il padre (…) la certezza nasce piuttosto dal riconoscimento sociale,
possibile solo se attribuisce al proprio figlio il suo cognome familiare”.
Per ciò giudico inconcepibile che una simile “rivoluzione” possa piovere dall’alto sugli Italiani
attraverso vie esclusivamente politiche, senza che ci sia stato in precedenza un confronto, un
dibattito (in occasione del nostro Convegno del 15 ottobre ho parlato, provocatoriamente, della
utilità di un referendum) sia a livello di esperti che popolare.
In un articolo che fece scalpore (La Repubblica 12 settembre 1996), Eugenio Scalfari scrisse
che la proposta del doppio cognome forniva “un buon contributo ad accrescere la confusione
generale, a indebolire ulteriormente ruoli sempre meno definiti, ad accrescere inutili tensioni”.
Se, nella Commissione a cui accennavo sopra e della quale faccio parte, si arriverà al voto
sull’articolo che prevede il doppio cognome, prenderò in prestito le parole che Scalfari scrisse
in quello stesso articolo: “con il cuore sarei per la proposta riforma, con la logica le sarei
contrario”. In realtà io non sono contrario, sono solo molto perplesso. Per questo non voterò
né a favore né contro e, contrariamente alle mia abitudini, mi asterrò.
* presidente dell’ISP