Venerdì 3 agosto il Consiglio dei Ministri ha approvato il Regolamento della Legge sulle “quote rosa” nei consigli di amministrazione delle aziende pubbliche. Non meno di un terzo dei componenti dei CDA dovrà essere costituito da donne. Dall’Enel alle Poste, dalle Ferrovie all’Eni, da Finmeccanica all’Anas… Le società interessate – tra quelle che dipendono direttamente dal Ministero dell’Economia, le controllate di secondo livello e quelle alle quali partecipano con oltre il 50% gli enti locali – sono 2.214.Fra il 2012 e il
2015 dovranno aprirsi a 6.500 consiglieri e 3.500 sindaci donna. Attualmente, nelle 25 società controllate direttamente dal Ministero
dell’Economia le donne che fanno parte del CDA sono nove, pari all’incirca al 7,7%.
Perché se ne parla in questa sede, naturalmente dedicata al tema della paternità? Perché sono convinto che la parità uomo-donna passi in maniera rilevante attraverso quella padremadre (e viceversa), perché una maggiore – e più qualificata – presenza femminile nel mondo del lavoro non può non avere riflessi sui ruoli familiari, perché spesso i padri sacrificati nella separazione della coppia con figli tendono a considerare – anacronisticamente e ingiustamente – il lavoro femminile e l’emancipazione della donna responsabili della crisi familiare.
E dunque questo venerdì come lo valuteremo? Un “venerdì nero”, come probabilmente lo riterranno molti uomini, o “una giornata storica” come l’ha definita la ex ministro per le pari opportunità Mara Carfagna? Io certo non sarò dalla parte di chi rimpiange la donna di un tempo, “regina del focolare”, tutta mamma e moglie, “senza grilli per la testa”. Naturale che le cose fossero allora, in un certo senso, più facili. Ruoli genitoriali e coniugali ben precisi e socialmente sanciti, nessun problema di identificazione di genere per i figli
(oggi come la mettiamo con il “mammo”? E con la “mamma tigre”?), case linde e pinte… Solo che tutto questo non esiste più.Per fortuna non possiamo riesumare i tempi in cui non esisteva il divorzio, i padri erano sì più autorevoli, ma quanto meno affettivi e se – per qualsivoglia motivo – eri costretta ad abortire avevi buone probabilità di lasciare la vita sotto i ferri (quelli da calza, non quelli del chirurgo) di una qualsiasi “mammana”.
Della ventata europea del ’68 colsi allora gli aspetti negativi di iconoclastia e le derive di violenza terroristica, osservandone solo più tardi i positivi risvolti a lungo termine fra i quali metto senz’altro la diffusione del lavoro femminile, cui seguirono un diverso rapporto di coppia e i semi di una nuova paternità. Dunque ben venga una maggiore presenza della donna nel mondo del lavoro (che vede già in
molti settori una netta dominanza femminile). Perché allora la notizia delle quote per legge non solo non mi entusiasma, ma mi mette un po’ di malinconia? Semplicemente perché non mi sembra la strada giusta e legittima per le donne, ma una scorciatoia un po’ umiliante. Ho sempre pensato, con Emma Bonino, che “le donne non sono panda”, che non abbiano bisogno di costituirsi in “specie protetta” ma che abbiano diritto alle stesse, identiche opportunità che sono date agli uomini.
Sulla Repubblica del 4 agosto scorso, Michela Marzano, filosofa e scrittrice, scrive che per molto tempo la soluzione delle “quote rosa” l’ha lasciata molto perplessa, convinta com’era con Montesqieu che non si debbano cambiare i costumi con le leggi ma le leggi con i costumi. Anche per lei bisognava agire piuttosto sui “contenuti” che sui “contenitori” dell’uguaglianza. E “cominciare col creare le condizioni adatte perché poi le donne potessero occupare posizioni di rilievo, ad esempio creando asili nido, scuole materne con
orari compatibili con quelli delle mamme che lavorano…”. Per inciso, io partirei da più lontano, dall’età infantile, perché le strade dell’uomo e della donna non abbiano alcuna differenza di percorso. E abolirei inconcepibili discriminazioni come quella che vede in Italia (ma non solo) la retribuzione maschile a parità di mansioni e di orario mediamente superiore del 16,4% a quella della donna. Combatterei duramente la vergognosa pratica delle “dimissioni in bianco” al momento della assunzione di una donna. Creerei le condizioni perché non debba accadere che quattro donne su dieci diano le dimissioni quando restano incinte solo perché nel nostro Paese è difficilissimo essere insieme madre (e moglie) e svolgere una professione.
Ma torniamo all’articolo di Marzano, che fino a questo punto ha rispecchiato esattamente le mie idee. Un punto in particolare mi ha colpito. Quando scrive che le donne, per arrivare ai vertici professionali, “devono ancora oggi dimostrare di essere ‘eccezionali’, ‘perfette’: capaci di impegnarsi di più, di fare di più, di controllare di più…sempre ‘qualcosa in più’ rispetto agli uomini”. È vero: ma è la stessa, identica disparità che segna le posizioni di padre e madre quando due si separano: la donna è una buona madre… per default, l’uomo deve fare i salti mortali per dimostrare di essere un padre non da meno. Poi però, la studiosa capitola: “Dobbiamo però arrenderci all’evidenza”, scrive. E spiega che “in certi casi solo la legge può accelerare la trasformazione della società modificandone le pratiche”.La fase delle “quote rosa” è pertanto necessaria, “anche semplicemente perché, finché le donne non occuperanno posti di responsabilità, non avranno mai gli strumenti per lottare contro le discriminazioni”.
Può darsi che Marzano abbia ragione e che solo così si possa accelerare il cammino verso la parità. Ma continuo a ritenere, con rammarico, che si tratti di una scorciatoia e non della via maestra. Un po’ mortificante, mi sembra, per la dignità della donna.
* presidente dell’ISP