Quando si discute della paternità, l’attenzione è generalmente puntata al ruolo paterno nella famiglia, specie al rapporto del padre coi figli. Ma parlare di paternità significa più propriamente riferirsi non tanto a singole figure e ruoli, quanto piuttosto ad un sistema, si potrebbe dire ad una “istituzione”, al centro di una fitta trama di relazioni con il sistema sociale e politico circostante. Come è stato posto in evidenza sotto il profilo storico da Maurizio Quilici nella Storia della paternità (Fazi, 2010) e sotto il profilo sociologico da Federica Bertocchi nella Sociologia della paternità (Cedam, 2009), il discorso sul padre trascende i confini familiari: specie nelle società moderne tende a permeare l’ideologia e l’assetto del sistema sociale e di quello politico, e da questi a sua volta ne viene condizionato.
Primo ad intuire le connessioni fra sviluppo della democrazia e trasformazioni della paternità, Alexis de Tocqueville, già all’inizio del XIX secolo affermò che “la democrazia avrebbe sostanzialmente modificato la figura del padre e il rapporto genitori-figli, in modo tale che il padre non sarebbe più stato l’anello di una catena generazionale attraverso cui si sarebbe trasmessa la civiltà”, quindi secondo il
teorico liberale “la autorità paterna, se non distrutta è per lo meno menomata”, e con il venire meno della figura del padre si sarebbe andati più facilmente nella direzione di una democrazia dispotica (Tocqueville, La democrazia in America, trad. it. 1992).
Sul piano dell’analisi sociale, un contributo in questa direzione è offerto dai sociologi della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor Adorno (Lezioni di sociologia, 1956), che hanno sottolineato il ruolo decisivo del potere domestico del padre per il progresso della società, perché determinate doti quali l’auto – controllo, l’autodisciplina, la coerenza e la fedeltà morale potevano svilupparsi unicamente sotto la guida paterna, in una famiglia dove al padre era riservata la funzione amministrativa ed educativa, e alla madre quella di lenire la durezza e la severità del pater familias. Il quadro tipico della famiglia borghese descritto dai francofortesi si spezza nel periodo del tardo capitalismo: secondo i due autori la società attuale non è in grado di sostituire in modo soddisfacente l’azione economica ed educativa del padre: e quindi il fanciullo (si presume maschio: raramente in queste riflessioni si accenna seppure indirettamente alle femmine) cerca un padre più forte di quello reale, un superpadre sull’ esempio quello prodotto dalle ideologie totalitarie. Il padre viene sostituito da poteri collettivi, e quindi anche dallo Stato. “I giovani”, concludono Horkheimer ed Adorno, “manifestano la tendenza ad assoggettarsi a qualunque autorità, qualunque ne sia il contenuto”.
Infine l’analisi psico-sociale – condotta fra gli altri dallo scrittore e psicoanalista Robert Bly, fondatore del movimento mitopoitetico
– sottolinea il ruolo fondamentale del padre non solo nella famiglia e nella trasmissione della identità al figlio, ma più in generale nella società e addirittura nello sviluppo della civiltà. Il pensiero di Bly non è misogino come sostengono i suoi critici, perché egli non attribuisce colpe alle donne per lo “svilimento” della figura paterna nella società di oggi, che si sarebbe verificato a partire dalla rivoluzione industriale, come uno dei frutti velenosi di quel processo storico e sociale definito correntemente nei termini di “modernità”. Si sarebbe così rotta a causa dalla assenza del padre dalla famiglia (allontanatosi non per la volontà soggettiva di chicchessia, ma in base alle esigenze economico-produttive della società industriale moderna) la “comunione maschile” attraverso cui il padre avrebbe trasmesso al figlio, insieme alle abilità fisiche, anche caratteri affettivi, emotivi, relazionali. Di qui il problema della socializzazione dei giovani maschi, che in assenza di padri e mentori sono introdotti nel mondo dalle madri, che non possono trasmettere “naturalmente” ai giovani maschi i contenuti affettivi, istintuali, etici del maschile. I maschi non adeguatamente socializzati, secondo Bly e altri teorici del movimento mitopoietico fra cui lo psicoanalista Claudio Risè, cadranno facilmente preda delle ideologie autoritarie, saranno succubi della droga e della violenza.
È immediatamente riconoscibile l’assonanza fra le opinioni del filosofo liberale francese, dei sociologi tedeschi appartenenti alla rigorosa “teoria critica”, dello psicoanalista e scrittore americano di scuola junghiana, nella analisi del ruolo “istituzionale”, storico e sociale, della paternità. Ovvero: l’indebolimento della figura paterna (il padre assente di Bly, il padre ombra di Quilici) e quindi l’appannarsi dello statuto originario della paternità, sarebbero all’origine della nascita delle dittature, dello Stato totalitario originata non solo da motivi politici, ma anche da bisogni privati: dietro il bisogno di una politica forte starebbe il bisogno di un padre forte.
Affermazioni nette, su molte delle quali preferiamo “sospendere il giudizio” – nonostante l’innegabile fascino delle narrazione, e l’autorevolezza degli autori (tutti maschi, detto per inciso). Se infatti pare accettabile la correlazione fra l’autorità paterna e le doti virtuose della responsabilizzazione e autodisciplina dei figli, permane viceversa il dubbio sulla meccanica connessione stabilita fra la crisi della paternità tradizionale e la nascita delle dittature moderne, tesi che necessiterebbe del supporto di approfondite e rigorose ricerche storico sociali e politiche. Altrimenti quella connessione pare il prodotto della idealizzazione di una figura paterna forse mai esistita nella realtà, di una famiglia armoniosa e stabile.
Una visione ideale affidata perlopiù alle rappresentazioni della sfera simbolica, piuttosto che ai dati reali (Spallacci, Maschi, 2012), come frequentemente accade quando si parla del genere maschile (ed il padre è maschio). Perché, infine, sarebbero possibili molte controdeduzioni: per migliaia di anni le società umane sono state dominate da una violenza diffusa e incontrastata (sia nel livello
privato, familiare, che in quello pubblico), ben più di oggi, come dimostra Steven Pinker, autore di un fondamentale saggio sulla violenza (The Better Angels of Our Nature, 2011); gli Stati erano governati da sistemi assoluti, autoritari ed oppressivi, almeno fino agli albori dell’800; eppure in quei tempi i “padri erano padri”, come correntemente si dice, trasmettevano ai figli valori e comportamenti,
ma il mondo in termini di autoritarismo, violenza, guerre (attività queste delegate allora pienamente agli uomini, figli di quei padri) non era certamente migliore di quello odierno.
* sociologo. Università di Bologna. Autore del libro Maschi, il Mulino 2012