Giuseppe Magno, magistrato di grande esperienza, ha la peculiarità di scovare, tra le pieghe di ciò che a prima vista appare “ovviamente” condivisibile, aspetti nascosti che inducono alla riflessione Questo notiziario, che nei numeri 1, 2, 3 del 2008 ospitò alcuni suoi interventi sulla questione del cognome paterno-materno, accoglie oggi stimolanti osservazioni su un altro “passaggio” (la cui bontà viene data per scontata) di attualità.
L’eclisse progressiva della figura genitoriale educativa – non solo paterna, ma pure materna – sta minando, assieme ad altri fattori, l’intera struttura sociale nei paesi dell’Europa Occidentale, con temibili ripercussioni sulla tenuta dell’ordine democratico, sull’onda di suggestioni positive in se stesse – come quella per la parità fra i generi o per l’emersione dei diritti dei minorenni – ma la cui spinta obbiettivamente rivoluzionaria induce anche mutamenti indesiderati, non tutti sotto controllo. Alcune di queste suggestioni, che hanno avuto origine nell’Europa Centro-settentrionale dove la figura paterna appare sbiadita per ragioni storiche, culturali ed economiche, si stanno diffondendo anche da noi, soprattutto perché la presenza dei nostri rappresentanti nelle sedi comunitarie europee non è stata, di solito, abbastanza incisiva; cosicché siamo poi costretti a subire, ed a vedere riflesse nella nostra legislazione interna, la cultura di altri Paesi che probabilmente non hanno molto da insegnarci in questo campo o, per meglio dire, non esprimono
necessariamente un’etica “superiore”, ma sono capaci di maggiore e più tenace iniziativa.
Qui mi riferisco in particolare (ma gli esempi potrebbero essere più numerosi) al dibattito su “potestà” e “responsabilità” genitoriale. Non si tratta, come si comprende bene, di una questione puramente terminologica, giacché essa investe un problema di fondo: se il genitore sia o non sia titolare anche di autorità sul figlio, per potergli impartire una corretta educazione.
Il termine potestà, di origine latina, comprende il riconoscimento di un’autorità, con l’intesa che questa deve essere esercitata non nell’interesse del soggetto agente, ma di quello destinatario. La potestà non costituisce, quindi, un munus (come invece è il potere, pur legittimamente conferito ed esercitato), bensì una funzione, alla quale non ci si può sottrarre. E quel tanto di potere che essa contiene
(l’auctoritas, appunto) è dato per consentire al soggetto che ne è investito di condurre a termine pienamente la sua opera, di accrescimento, di sviluppo, di progresso (auctoritas viene da augere, che significa accrescere) delle persone che gli sono affidate, generalmente i componenti della famiglia, oggi essenzialmente i figli. D’altra parte, a fronte del potere-auctoritas, sta il dovere di assolvere la funzione a qualsiasi costo, senza possibili scusanti. Sta benissimo, perciò, che la potestà sia esercitata solidalmente
dal padre e dalla madre, come attualmente dispone il nostro codice civile (articolo 316).
Invece, la pura e semplice “responsabilità”, scompagnata dall’autorità, ossia dal potere di indirizzare, di approvare, di correggere, eventualmente di punire, è un non-sense: Come si fa ad essere responsabili per cattiva gestione di un potere (quello educativo) che non si possiede? Finisce che il genitore è responsabile solo del soddisfacimento dei bisogni materiali del figlio; cioè si snatura, perde
la sua caratteristica essenziale di guida amorevole ed autorevole, interessato esclusivamente al bene del figlio, per ridursi quasi al rango di funzionario di un ipotetico ente pubblico che deve avere a cuore istituzionalmente il bene di tutti i cittadini. Quindi, in definitiva, parlare di mera responsabilità significa sconfessare la specialità della famiglia come comunità educante intermedia, e riportare tutti i cittadini, figli minorenni compresi, sotto l’ala politica dello Stato, senza mediazioni genitoriali. Le conseguenze di una tale impostazione sono ben note, e gravissime, anche sul terreno politico, perché la creazione di una massa d’individui facilmente
manipolabili, come i minorenni presi singolarmente, è stata sempre l’anticamera di avventure non democratiche.
Qui non è in discussione l’indiscutibile parità fra generi, essendo a tutti chiara ormai la necessaria condivisione di potestà e responsabilità da parte di entrambi i genitori. È tuttavia molto evidente come l’attacco segua percorsi preferenziali di conflitto con la figura del padre, una volta unico titolare della “patria” potestà. Ma sarebbe sbagliato controbattere prendendo le difese del padre: in realtà, sotto attacco sono i genitori in quanto tali, e la loro personale, e sperabilmente concorde, intenzione di educare i figli anche
proteggendoli da ingerenze estranee, massimamente da quelle degli enti politici che si arrogano il compito di sostituire la famiglia nella funzione educante, scaricando poi sui genitori la responsabilità per gli esiti dell’operazione.
È quindi auspicabile che, messa da parte ogni stonata sfumatura sessista, le persone e gli enti che hanno a cuore lo sviluppo pieno ed armonioso della personalità del fanciullo (per dirla con le parole della Convenzione di New York del 1989), non s’inducano a sottoscrivere senza discutere novità di questo genere – “responsabilità” al posto di “potestà” dei genitori – ma si rivolgano ad esse con maggiore attenzione critica (stavo per dire con circospezione), facendo tesoro di una cultura plurimillenaria il cui portato non è certamente tutto da buttare.
* Magistrato. Già Direttore Generale del Dipartimento Giustizia Minorile