di Maurizio Quilici *
Con grande impatto mediatico la vicenda di Leonardo, il bambino di dieci anni, figlio di separati, prelevato in una scuola di Cittadella (Padova) e trascinato via per essere condotto in Casa famiglia, ha scosso l’opinione pubblica italiana. Raramente si era visto un contraccolpo così violento, uno sdegno così diffuso, una così compatta partecipazione dei media. Come al solito, la adesione tutta italiana a vicende che riguardano i bambini ha fatto sì che il sentimento facesse aggio sulla riflessione. Come ha rilevato l’I.S.P. nel primo di due comunicati trasmessi dall’Agenzia ANSA, “l’episodio del bambino di Cittadella presenta molti aspetti delicati, che andrebbero esaminati non sull’onda della comprensibile emozione, ma a mente fredda e con completa conoscenza delle circostanze e degli antecedenti”.
Così non è stato, e forse mai come in questa occasione si sono lette e ascoltate tante sciocchezze da parte di “esperti” (qualcuno vero, molti improvvisati e senza cognizione di causa) immediatamente accaparrati per interviste e talk-show. Il risultato? Alcuni giorni di vera e propria follia. Genitori e parenti del piccolo Leonardo (tutti abbiamo guardato il video con le orribili scene mandato in onda da Chi l’ha visto e abbiamo sentito la zia urlare ripetutamente il nome del bambino, per cui mi è parso francamente un po’ ipocrita il nome di fantasia usato da qualche testata)… genitori e parenti, dicevo, in TV ognuno con la sua versione, a sparare a zero sull’ex coniuge, riproponendo così all’intero Paese il conflitto che da ben otto anni li vede contrapposti nelle aule di giustizia e suscitando due schieramenti nazionali, pro-padre e pro-madre. E poi tutti a cercare di vedere il bambino, di parlargli. Per fortuna, pochi ci sono riusciti: che io sappia solo l’on. Alessandra Mussolini, nella veste di Presidente della Commissione bicamerale per l’Infanzia, e Vincenzo Spadafora, Garante nazionale per l’infanzia, due che qualche diritto – e specialmente il secondo – effettivamente lo avevano.
Le mamme dei compagni di Leonardo hanno organizzato una fiaccolata e innalzato striscioni con su scritto “Leonardo deve tornare dalla sua mamma”. Le massime autorità – dal Presidente della Camera a quello del Senato, dal ministro dell’Interno al capo della Polizia – hanno promesso inchieste severe. L’ispettrice di polizia che ha partecipato al “prelievo” (certo inadeguata e quantomeno maleducata) ha ricevuto minacce di morte. A Roma palloncini di protesta sono stati lanciati davanti al Mnistero di Grazia e Giustizia. E il tema scritto da Leonardo subito dopo l’evento è divenuto oggetto di minuziosa esegesi psicologica e sociale. L’emozione la fa da padrone e ognuno si sente in diritto di prendere posizione. Anche chi fino a ieri non aveva mai sentito nominare la PAS e ignora totalmente i meccanismi – psicologici e legali – di una separazione conflittuale.
Certamente le modalità con le quali il bambino è stato prelevato a scuola non sono accettabili; nessuno, però, ha fatto presente che in simili circostanze la decisione – non sempre adeguatamente ponderata e giustificata, questo è pur vero – della magistratura viene eseguita molto spesso proprio a scuola; andatevi a leggere, per esempio, il drammatico racconto di Angela L. nel libro Rapita dalla giustizia (Rizzoli 2010), che comincia proprio nel giorno in cui Angela, sette anni, viene prelevata in classe da una psicologa e da due carabinieri in divisa e condotta in una “struttura protetta”, senza che i suoi genitori ne siano stati informati. Non sempre ci sono urla e violenza come in questo caso, ma lo strazio e l’angoscia per il bambino, statene certi, non mancano mai.
Chiariamo una cosa: una disposizione della magistratura non è necessariamente giusta ed è legittimo criticarla, e contestarla nelle sedi legali. Ma va civilmente accettata. Non è ammissibile opporvisi con la violenza (come non è permesso, naturalmente, con violenza eseguirla). E la soluzione del prelievo a scuola ha una motivazione molto semplice: presentarsi a casa con un ordine del giudice significa di solito trovare genitori e parenti schierati a difesa del bambino, con esiti spesso altrettanto drammatici di quelli di Cittadella.
Nel caso di Leonardo, per ben due volte si era cercato di eseguire l’ordine del giudice a casa, ma in entrambi i casi polizia e carabinieri (che inevitabilmente accompagnano lo psicologo o l’assistente sociale) avevano rinunciato per le forti resistenze del bambino e l’ostilità del contesto familiare. Inutilmente il magistrato aveva proposto alla madre di partecipare al trasferimento di Leonardo in Casa famiglia, trovando un momento di accordo con l’ex coniuge per rendere meno traumatico il passaggio. E inutilmente si era cercato di farle capire quanto potesse essere negativo ostacolare in tutti i modi (per cinque anni) il rapporto con il padre e addirittura renderlo impossibile per un anno. Devo ricordare, a questo proposito, che nel 2009 alla donna era stata tolta la potestà genitoriale e che nell’agosto 2012 la Corte d’Appello di Venezia aveva deciso per l’affidamento al padre, preceduto da un periodo in una struttura di recupero.
Altro discorso, naturalmente, è quello delle modalità con le quali vanno condotte simili operazioni, che sempre debbono aver riguardo al famoso “interesse del minore”: quest’ultimo è l’obiettivo di ogni decisione in materia minorile e la stessa esecuzione di un provvedimento della magistratura non può non tenerne conto. Inaccettabile, sotto questo profilo, il modo in cui si sono svolte le cose nella scuola di Cittadella.
Ci sarebbero molte altre considerazioni da fare, come il fatto che l’invio di un bambino in una Casa famiglia deve essere sempre l’ultima ratio e le istituzioni hanno il dovere – morale, ma anche giuridico – di intervenire in positivo sulla famiglia, sostenendola economicamente e psicologicamente, prima di farvi ricorso.
La vicenda in questione ha messo in luce le polemiche che da alcuni anni seguono la PAS (Parental Alienation Syndrome), quello stato di ostilità e rifiuto (ingiustificato) verso un genitore da parte del figlio, indotto dall’altro genitore con tecniche di vero e proprio condizionamento. Nel nostro notiziario ne abbiamo parlato anche di recente (cfr. “La PAS è una forma di violenza sui minori”, in ISP notizie n. 3/2011) e a questo tema è dedicato un intero capitolo del mio libro, in corso di pubblicazione, Manuale del papà separato (datanews editore). Frettolosamente definite dalla madre “scienza spazzatura”, le teorie sulla PAS, elaborate nel 1985 dallo psicoanalista e psichiatra infantile Richard Gardner, dividono da anni il mondo della psicologia e della psichiatria. I cosiddetti “negazionisti”, rifiutano dignità medica alla PAS, forti del fatto che essa non è compresa nel DSM – IV, la “Bibbia” americana della psichiatria che accoglie tutti i disturbi psichiatrici classificabili come malattia, e, a quanto pare, non lo sarà neppure nel DSM – V, versione aggiornata che sarà pubblicata nel marzo dell’anno prossimo.
In occasione della vicenda di Leonardo si sono espressi contro la PAS, fra gli altri, lo psicoanalista Massimo Ammaniti e Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva e direttore dell’Istituto di ortofonologia. Per il primo, la PAS pecca di “semplicismo concettuale” ed inoltre “non è mai stata documentata perché non si esprime con un quadro clinico definito”; per il secondo “è un errore grossolano ricorrere a un finto criterio diagnostico o a una sindrome inesistente dal momento che non si può agire in funzione di un disturbo sospetto, che è stato pure sconfessato”.
Ora, io non entro nel merito della questione se sia legittimo o meno parlare di “sindrome” a proposito della PAS, ossia se sia o no delineabile una vera e propria malattia psichica. Certo è che nelle separazioni fra coniugi esistono con sempre maggiore frequenza casi nei quali il figlio manifesta irragionevole avversione e totale rifiuto di un genitore (di solito quello non affidatario o non convivente, ossia il padre), atteggiamento che ad una accurata analisi specialistica risulta riconducibile ad un condizionamento dell’altro genitore. Un tempo esisteva il reato di “plagio”, poi questo fu cancellato dal Codice penale. Oggi non si potrebbe ricorrere al giudice invocando il plagio, e tuttavia persone “plagiate” continuano ad esistere e forse sarà capitato anche voi di incontrane qualcuna. Così, mi pare del tutto secondario far dipendere la realtà di una situazione da una precisa collocazione psichiatrica. Le classificazioni sono importanti, ma se il DSM – V non accoglierà la PAS come figura autonoma e definita di disturbo psichiatrico, non per questo diventeranno inesistenti quei sintomi che Gardner (e altri dopo di lui) credette di individuare in numerosi bambini e che oggi si riscontrano con preoccupante frequenza nelle separazioni. Non dovremo allora occuparcene? Non dovremo studiarne la eziologia e i possibili rimedi per ristabilire un corretto rapporto del figlio con entrambi i genitori? Molti periti, consapevoli del terreno infido sul quale si muovono e delle forti ostilità concettuali relative alla PAS (e a Gardner, del quale la on. Mussolini, in un memorabile Porta a Porta del 16 ottobre scorso, ha sottolineato che morì suicida – come se questo fosse un chiaro segno di inaffidabilità professionale – e ha dato per certo che fosse un pedofilo) evitano semplicemente di usare il termine PAS e parlando di “abuso”, o al più di “alienione parentale”. Ma questo non significa nascondersi dietro un dito? Non si confonde così forma e sostanza?
A distanza di alcune settimane, sembra che i media abbiano dimenticato quel bambino. Era quello che l’ISP auspicava con il secondo comunicato, titolato “Lasciate in pace Leonardo!”. Esso si concludeva affermando che non aveva senso schierarsi dalla parte della madre o del padre, “che speriamo capiscano il male che stanno facendo al loro figlio. Schieriamoci invece dalla parte di Leonardo, lasciamolo tranquillo!”
*presidente dell’ISP