Dividere i compiti di cura al 50% tra mamme e papà «non è solo giusto. È la cosa migliore che possa capitare a una famiglia. Permettere agli uomini di fare la loro parte a casa fa bene alla donna, perché le dà più scelte, così come fa bene agli uomini e ai figli». Lo ha scritto recentemente Sheryl Sandberg, 44 anni, amministratrice delegata di Facebook, nella prefazione del libro Getting to 50- 50, how working parents can have it all (“Arrivare a 50-50, come i genitori che lavorano possono avere tutto”) di Sharon Mears e Joanna Strober.
Un miraggio per l’Italia, dove troppo spesso il papà è ancora visto come procacciatore di cibo e la mamma come chioccia. Un ritratto della famiglia italiana, questo, proposto un anno fa dall’Herald Tribune, edizione internazionale del New York Times, in un servizio che si era guadagnato il titolo di apertura della prima pagina del quotidiano: Divorced, and homeless, in Italy, ovvero “Divorziati, e barboni, in Italia”. All’interno un’intera pagina in cui si cercava di spiegare con testimonianze e statistiche come mai quando la coppia scoppia da noi non si usi dividere risorse economiche e tempo con i figli, ma le mamme rimangano solitamente nella casa familiare con i bambini loro affidati per l’80-90% del tempo e il papà si riduca a pagare assegni di mantenimento, a visitare i figli come si fa con lontani parenti e a vivere, in alcuni casi, persino in auto. La risposta è in una normativa “obsoleta” che non tiene conto della divisione dei compiti di cura non soltanto dopo la separazione, ma fin dal concepimento della prole. Una situazione che negli ultimi 12 mesi non è cambiata, visto che il governo Monti a fine mandato, riuscì, dopo ampio dibattito, ad approvare un solo giorno di congedo di paternità obbligatorio e retribuito, a fronte di una richiesta dell’Unione europea di prevedere almeno 20 giorni per gli uomini e 20 settimane per le donne (ma qui l’Italia mammona è già oltre: 22 settimane).
Proviamo a mettere in fila i dati su cui lavorare per raggiungere il “paradiso” dell’eguaglianza e della modernità proposto da Mrs. Facebook. Premesso che nella società un mutamento è già in atto – nel febbraio 2012 Repubblica diffuse un’indagine sulle coppie tra i 30 e i 35 anni, titolando “Papà perfetti, rivoluzione silenziosa / così si trasforma la famiglia italiana” che si traduce in un 88% di uomini dediti alle faccende domestiche e nell’accudimento in sinergia con le compagne – lo Stato non fa nulla per sostenere la paternità o anche solo una reale condivisione dei compiti di cura. In un editoriale sul Corriere della sera, Maurizio Ferrara ha lanciato l’appello “Meno ideologia, più aiuti concreti / Una famiglia modello europeo”, spiegando i vantaggi di seguire l’esempio della Scandinavia, dove i nidi pubblici coprono il 60% del fabbisogno (in Italia solo l’11%) e i due genitori, a prescindere che siano sposati o conviventi, sono incentivati a condividere i compiti di cura, potendo contare su 18 mesi di congedi cumulativi pagati all’80% (in Italia i mesi sono 10, con stipendio ridotto al 30%) più 77 giorni di congedo obbligatorio per i padri, che in Italia ne hanno, come detto, uno solo daun anno a questa parte, più due che la compagna ha facoltà di cedere loro.
Eppure “Congedare i padri conviene”, come ha scritto sulla rivista Il Mulino (numero dell’aprile 2012) Daniela Del Boca, docente di Economia del lavoro all’Università di Torino: “Recentemente è stato mostrato che un incremento della durata del congedo parentale produce un aumento della probabilità di lavorare e di ritornare al lavoro delle mamme (soprattutto per le donne più istruite) e i congedi part-time presi simultaneamente da ambedue i genitori (sull’esempio di Svezia e Norvegia) potrebbero contribuire a ridurre l’impatto negativo sulla carriera e sui salari delle madri. In questo modo si ridistribuiscono su ambedue i genitori i costi dei congedi parentali sulle carriere lavorative”. Esattamente il contrario delle politiche perseguite in Italia persino dal sindacato, che su questi temi promuove discriminazioni, più che parità di diritti, tra categorie e tra generi: garantite quasi esclusivamente le mamme dipendenti a tempo indeterminato, con congedi obbligatori più lunghi della media europea che spesso finiscono per penalizzare il loro rientro, assicurato il 100% di retribuzione per il primo mese di congedo facoltativo solo ai padri che lavorano nel pubblico impiego, il 30% agli altri…
Nel Nord Europa, dirà qualcuno, hanno una cultura diversa da quella dei paesi mediterranei e sulla divisione dei compiti di cura lavorano da decenni (è del 1984 la legge sulla residenza alternata per i figli dei separati in Svezia). Sì, ma noi siamo rimasti terribilmente indietro anche rispetto agli stati più vicini al nostro. In Francia la residenza alternata, introdotta dall’allora ministro della Famiglia, nonché lavoratrice e mamma separata Segolene Royale, “per rendere meno inique le separazioni, perché ai figli si insegna con i piccoli gesti quotidiani”, è applicata nel 19% delle separazioni giudiziali (che sono in media una su due) e nella quasi totalità di quelle in cui i genitori si accordano spontaneamente.
E la Germania, nei 5 anni seguiti all’applicazione di una nuova legge che dal 2007 riconosce 12 mesi complessivi di congedo parentale facoltativo per entrambi i coniugi retribuito al 67%, ha effettuato una svolta epocale: è passato dal 3,5% al 25% il numero dei papà che hanno richiesto di stare a casa con i figli, in media per 102 giorni, ma il 14% arriva fino a 8 mesi (fonte Corriere della sera).
Ai papà italiani che vogliono avere un ruolo attivo nella crescita dei loro eredi, non rimane che licenziarsi (cercate online la storia del comasco Roberto Zoni, sposato con un medico tedesco, che racconta come si sia dimesso dal settore privato e abbia scelto ’insegnamento, “quasi un part-time” per sua stessa ammissione, per poter seguire i 4 figli e godere di almeno 30 giorni di congedo retribuito al 100%) o espatriare (pare un miraggio l’esperienza raccontata dal milanese Stefano Dell’Orto nel suo blog “Il diario di un papà italiano in Svezia” e anche in un articolo apparso su questo giornale (ISP notizie, n. 2/2011, pag. 2).
Pietro Berra
(Giornalista. Como)