di Maurizio Quilici*
Ogni anno porta con sé una lunga scia di sangue in famiglia: madri che uccidono figli, figli che
massacrano i genitori, padri che fanno stragi di mogli e figli, con un meccanismo che di solito è
legato alla separazione e all’affidamento. L’anno che sta per finire è stato drammaticamente ricco
di questi eventi.
Ad ogni episodio si rimane turbati, ad ogni morte ognuno di noi si interroga su che cosa abbia
portato proprio a quella conclusione, che cosa si poteva – o doveva – fare per impedirla, quali
soluzioni la società potrebbe mettere in campo almeno per il futuro: leggi diverse e più giuste?
servizi sociali più attenti? assistenza – compresa la mediazione familiare – più diffusa sul territorio e
soprattutto preventiva? O piuttosto persone più mature, più sicure di sé, più equilibrate? E chi
dovrebbe provvedere a indurre questo equilibrio? La famiglia? la scuola? i media?
Ad ogni titolo di giornale si scatenano il mediatico circo e il balletto degli “esperti”. E si apre il
“gioco delle colpe”: colpa del maschio violento, colpa delle donne opportuniste e vendicative, colpa
dei giudici frettolosi, colpa delle leggi ingiuste…
Quando avvengono questi episodi i commenti risentono spesso di una assurda ideologia di
genere: se una madre uccide un figlio, ci saranno padri che commenteranno: “E poi dicono che la
violenza è dei padri. Eccolo l’istinto materno tanto decantato. Ora per la madre ci sarà subito una
spiegazione assolutoria: la depressione post partum, la violenza del marito, le difficoltà e
l’abbandono della separazione'”. Quando a uccidere in famiglia è un uomo, le donne non
avranno dubbi: è la violenza insita nel maschio che emerge, è il desiderio maschile di affermare
un dominio che sente sfuggirgli di mano, colpi di coda del vecchio pater familias, del padrepadrone.
Segnali di rabbia, di prevaricazione, di possesso nei confronti della donna, dei figli.
Francamente, a me sembra che certi gesti siano il segno di uno squilibrio di sentimenti, di un
disorientamento profondo, di una angoscia “di genere” che non vede sbocchi. Sintomi di fragilità e
insicurezza del proprio ruolo, piuttosto che l’iroso tentativo di riaffermare un potere maschile.
Certo non aiuta la comprensione del fenomeno, né il necessario dialogo fra i generi, scrivere che “i
parlamentari ignoranti o i padri separati lobbisti dovrebbero sentire la coscienza pesante e
devastata, per avere armato la mano a quei padri convinti di subire ingiustizie giudiziarie e per ciò
stesso diventati assassini” (il Giornale, 23 settembre 2010). Attribuire addirittura alle associazioni
di padri separati la responsabilità di aver “armato la mano” mi pare eccessivo e fuor di luogo
(anche se è vero che alcune soffiano sul fuoco delle relazioni fra uomo e donna).
E’ un terreno difficile sul quale muoversi. Complesso e difficile. Facile invece, anche per chi ha
confidenza con la psiche dell’uomo, con i meccanismi del delitto, con le pulsioni maschili e
femminili, prendere abbagli. Facile, anche perché spesso chi azzarda spiegazioni non ha una
conoscenza dei protagonisti, del loro vissuto e del loro ambiente ed è costretto a giudicare sulla
base delle notizie di stampa. Può esserci qualche eccezione: nel 1996, la psicologa Alessandra
Lancellotti, fiduciaria dell’ISP per la Liguria, poté commentare con cognizione di causa il
quadruplice suicidio di Biella: nonni e genitori che si uccisero dopo essere stati accusati di abusi
sessuali nei confronti di due bambini. Lancellotti (che riteneva innocenti i quattro) aveva infatti
compiuto su di loro una perizia di parte.
Le cause di certi outbreaks di violenza possono essere molte, e non sempre facili da individuare.
Così come molte potrebbero essere le soluzioni, anche queste non facili da adottare. Di una cosa
si può essere certi: i padri che affrontano (spesso subiscono) la separazione e le conseguenti
procedure di affidamento, di solito penalizzanti, dovrebbero essere – come scrive nella sua lettera,
pubblicata a pag. 2 un socio ISP – “accompagnati nel nuovo percorso, ascoltati e tranquillizzati,
specie se spaventati da difficoltà economiche e solitudine”. Difficoltà economiche e solitudine sono
usuali compagne di strada di molti padri che si separano.
Oggi le numerose associazioni di padri separati assolvono – chi più chi meno bene – anche a
questo importante compito: offrire non solo indicazioni di carattere tecnico-legale, ma una traccia di
vita, un ascolto, un incoraggiamento, una comprensione.
Molti anni fa, quando l’ISP era l’unica organizzazione ad occuparsi di paternità, due soci che si
erano rivolti a noi vennero a ringraziarmi, in tempi diversi ma con parole quasi uguali. “Il suo
Istituto” – mi dissero – “ci ha ridato la parola”. Volevano dire che separazione e difficoltà nel vedere
i figli li avevano ammutoliti, resi disorientati, incapaci di confidarsi, di consigliarsi, di affermare i
propri diritti di padri, in una società che non offriva ad un padre separato – ancor meno di oggi –
alcun ascolto.
Si va sostenendo, giustamente, che se le madri fossero seguite anche dopo il parto, con la stessa
meticolosità che caratterizza la gravidanza e la nascita, certi drammatici esiti imputabili a
depressione potrebbero essere evitati. Uguale attenzione meriterebbero i padri che si separano,
anch’essi vittime di angoscia e depressione.
Perché nulla può giustificare un atto di morte specie se compiuto sui propri figli. Ma solo chi ha
vissuto il senso di impotenza, di angoscia, di vuoto e di dolore che coglie un padre allontanato dai
suoi figli può capire (che è cosa diversa dal giustificare) come a volte la disperazione ottunda ogni
ragionevolezza, deformi mostruosamente l’amore per i figli (quell’amore che spesso la separazione
costringe ad associare a un atroce senso di perdita) e finisca nel sangue e nella morte.
* Presidente dell’ISP