di Maurizio Quilici *
Tra le iniziative prese dal Governo Monti ce n’è almeno una che tocca da vicino i padri: il ddl di riforma del mercato del lavoro prevede un permesso di tre giorni, interamente retribuiti, entro i cinque mesi dalla nascita di un figlio, quale “sperimentazione finanziata dal Ministero del Lavoro”. La ministra del Welfare, Elsa Fornero, lo aveva ipotizzato il 30 gennaio scorso, durante una trasmissione televisiva, pur dicendosi contraria, in linea di principio, all’obbligatorietà su questi temi. Come era prevedibile, l’introduzione del permesso di paternità (non lo chiamerei congedo, per non fare confusione con i congedi parentali previsti dalla Legge 8 marzo 2000, n. 53) ha suscitato opposte reazioni: entusiastiche, perplesse, contrarie.
L’iniziativa ve nel senso di quanto auspicato dal nostro Istituto, che da tempo si batteva per questo obiettivo. Al Convegno di Roma del 15 ottobre 2008, in occasione dei 20 anni di attività dell’I.S.P., indicai tre punti-chiave quali obiettivi sui quali lavorare. Il primo di questi era proprio il permesso alla nascita per i padri (il secondo, per chi non lo ricordasse, era il cognome paterno e il terzo la questione della paternità in relazione all’aborto). Tre giorni era il nostro obiettivo minimo.
Personalmente, vedo con favore questo breve periodo obbligatorio. Unica obiezione: avrei preferito che esso non fosse consentito entro i cinque mesi dalla nascita, ma entro i primissimi giorni, che so, entro una settimana. Perché proprio quello è il momento delicato in cui la presenza del padre assume particolare importanza. Lo sanno bene anche gli uomini (perlomeno quelli più responsabili e maturi) che infatti alla nascita di un figlio devono “ammalarsi” per qualche giorno o consumare parte delle ferie.
Presenza “forte”, quella del padre, non solo per il necessario sostegno – fisico e psicologico – alla madre (specialmente quando manca quello delle famiglie) ma anche perché il contatto precoce con il neonato è predittivo di un maggior attaccamento paterno in futuro.
Ho sentito fare dell’ironia perché “tre giorni sono pochi”. Secondo me è comunque un passo importante, un segno di svolta significativo: esso denota una nuova attenzione nei confronti dei padri (e delle madri, certo) ed è un giusto richiamo di responsabilità e impegno. In futuro, magari in tempi di economia meno grama, sarà possibile prolungare questo periodo adeguandoci ad altri Paesi, come la Francia, dove dal 2002 i permessi alla nascita sono passati da tre a 14 giorni a stipendio quasi pieno ( ne usufruisce oltre il 70% dei padri sotto i 35 anni) o come la Spagna (15 giorni) o il Regno Unito (14 giorni). Ma anche adeguandoci all’Unione Europea, il cui Parlamento nel 2010 (direttiva 9285) ha indicato per i padri due settimane di permesso alla nascita, obbligatorio e retribuito al 100%. Peccato che la pratica attuazione sia stata rimessa alle decisioni dei singoli Stati in base a valutazioni economiche, il che ha messo subito fuori causa il nostro Paese.
Qualcuno ha fatto un distinguo, ritenendo valutabile l’iniziativa “se l’obiettivo è di contribuire ad un pieno riconoscimento del ruolo genitoriale dei padri”, respingendola se essa “sottendesse ad un secondo fine – quello di imporre ostacoli artificiali alle carriere maschili nell’ottica di un’ equalizzazione ‘al ribasso’ della competitività professionale di uomini e donne” (Marco Faraci, www.libertiamo.it, 6.2.2012). Un’ipotesi, quest’ultima, che mi pare poco credibile, mentre coglie nel segno una osservazione successiva dello stesso Faraci, relativa alle sentenze di separazione e affidamento (che tuttavia non deve sminuire la portata della iniziativa legislativa): “Che senso ha obbligare i padri a cambiare pannolini se poi da un giorno all’altro possono vedersi sottratti i propri bambini e venire costretti in una posizione di marginalità? Prima di poter parlare di ‘paternità obbligatoria’, servirebbe valorizzare davvero la ‘paternità volontaria’ – cioè riconoscere i diritti e le aspettative di tutti quei padri che vogliono fare i padri e che tuttora sono privati della possibilità di mantenere un rapporto equilibrato con i loro figli”.
Qualcun’altro ha detto: chi garantisce che l’uomo si occupi davvero di moglie e figlio? Va da sé che l’uso corretto di quei tre giorni è affidato alla responsabilità dell’uomo. Non ci saranno testimoni né autocertificazioni, ma dubito che qualcuno, appena divenuto padre, utilizzi il permesso per giocare a poker o andare a pesca.
Perché sono favorevole a questa iniziativa legislativa? Perché essa: 1) mira a responsabilizzare il padre e può fargli scoprire la realtà di un rapporto nuovo e particolarissimo; 2) toglie ai padri dubbiosi il peso della scelta, favorendo i padri “virtuosi” (vorrei ma so che mi metterei in cattiva luce con il datore di lavoro); 3) toglie alle aziende uno strumento di ricatto, più o meno sottinteso, nei confronti del lavoratore (se chiedi il permesso non sarai considerato un dipendente affidabile e negenitorisentirà la tua carriera); 4) costituisce una doverosa attenzione nei confronti delle donne, che nei giorni successivi al parto, come ho detto, sono particolarmente bisognose di cure e attenzioni.
Insomma, tre giorni sono pochi, ma sono una novità e un inizio. Frattanto, sul fronte dei congedi parentali, Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione e la Integrazione, con delega anche alle politiche familiari, proporrà alla Camera di estendere fino ai 18 anni dei figli il periodo nel quale è possibile ai genitori usufruire del congedo parentale. Oggi la Legge 2000/53 lo prevede solo fino all’età di otto anni. Come si vede, qualcosa, sia pure lentamente, si muove.
* presidente dell’ISP
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