di Maurizio Quilici *
Erika De Nardo, la ragazza che il 21 febbraio 2001, allora sedicenne, massacrò a coltellate la madre, Susy Cassini, e il fratellino Gianluca, di dodici anni, è tornata libera. Il 6 dicembre scorso ha lasciato la comunità Exodus di Lonato, nel bresciano, dopo la detenzione scontata nel carcere di Verziano (Brescia) e prima ancora in quello minorile Cesare Beccaria di Milano. Era stata condannata a 16 anni, ne ha scontati undici per effetto dell’indulto e della buona condotta. Il duplice delitto commesso da Erika, che agì assieme al suo ragazzo, Omar Favaro, anche lui sedicenne, fece un’enorme impressione, entrò nelle famiglie scuotendole per quella violenza che sembrava contraddire ogni legge di natura (o di cultura), con il mistero di qualcosa di inesplicabile e le lasciò attonite, sgomente, a interrogarsi sui rapporti genitori-figli, sugli oscuri, a volte, percorsi della adolescenza. Richiamò alla mente altre lucide uccisioni perpetrate dai figli: da Ferdinando Carretta a Pietro Maso a Piergiorgio Zorzi… almeno otto episodi dal 1989 ad oggi.
Colpiva anche, nel delitto di Erika e Omar, il contesto sociale delle vittime: nessun ambiente povero, incolto, degradato, ma una famiglia benestante e borghese, con il padre ingegnere, impiegato alla Pernigotti. Quel padre, Francesco De Nardo, è stato fin dall’inizio un altro elemento di mistero in questa vicenda. Da subito ha “protetto” Erika, non le ha fatto mai mancare il suo amore di padre e la sua vicinanza, quasi che proprio l’orrore di ciò che era stato commesso fosse l’unica strada per giungere a un incontro che – a quanto pare – non c’era mai stato prima. Non voglio fare della psicologia a buon mercato su una vicenda che ha diritto, ora più che mai, al silenzio di quanti sono rimasti (ma Erika, e soprattutto Omar, non fanno molto per favorirlo) e quando furono i giorni del delitto io stesso stigmatizzai l’invadenza e la mancanza di umanità di tanti giornalisti. Se torno a parlarne è solo per stimolare ad una riflessione che ci aiuti a capire: cosa significa il rapporto genitori-figli, cosa significa e quale strada possa seguire l’amore di un padre per un figlio e quello di un figlio per il padre. Secondo alcune testimonianze, c’era uno stretto rapporto fra padre, madre e il piccolo Gianluca, mentre Erika si poneva al di fuori, con una durezza e violenza, nei confronti soprattutto della madre, lontane dal fisiologico conflitto di una adolescente. Una ragazza “difficile” da gestire, che aveva avuto esperienze di sesso e di droghe (anche pesanti) e per la quale il padre (che pure si preoccupava dei suoi risultati scolastici) era divenuto un perfetto estraneo. Talmente estraneo che Erika aveva progettato anche la sua uccisione. In questo quadro mi rifaccio, naturalmente, alle testimonianze di chi ha vissuto da vicino la vicenda, per esempio alle dichiarazioni del giudice Ennio Tomaselli, che redasse le motivazioni della sentenza di condanna per Erika e Omar.
Francesco De Nardo ha visto distrutta la sua famiglia nel modo più lacerante che si possa immaginare. Avrebbe potuto rifiutare Erika, o quantomeno allontanarsene. Nessuno, credo, gliene avrebbe fatto una colpa. Lui no: fin dal primo momento ha detto (o fatto intendere, poiché è un uomo che parla poco e rifugge, diversamente da altri protagonisti di storie analoghe, i microfoni e le pagine dei giornali) che Erika è tutto ciò che gli è rimasto, che lui è l’unico appoggio per la figlia. Era con lei quando la ragazza compì 18 anni, è stato vicino a lei ogni mercoledì e ogni domenica – i giorni di visita nel carcere – quando lui prendeva il treno per Milano, era con lei nelle prime ore di libertà, sarà con la figlia nei giorni di Natale.
L’amore di una madre, ci dicono gli studiosi, è per sua natura “incondizionato”, esiste e si alimenta qualunque cosa commetta il figlio; quello del padre è invece “condizionato”: ti amo ma devi rispettare certe regole e meritare il mio amore. Ma la storia è piena di episodi di amore paterno incondizionato, e quello di Francesco De Nardo per sua figlia ne è un esempio. L’amore per un familiare che si è macchiato di gravi delitti suscita sempre perplessità, diffidenza, sdegno, raramente comprensione. Nel 1995 Maria Concetta Riina, la figlia maggiore del capo di Cosa Nostra, fu al centro di aspre polemiche per essere stata eletta nel Consiglio d’Istituto nel liceo di Corleone da lei frequentato. Ilda Boccassini, che era stata PM nella strage di Capaci, disse che la giovane non aveva preso le distanze dalla mafia e dalle scelte criminali del padre. “Da cosa dovrei dissociarmi?” – chiese polemicamente la ragazza in una intervista a Panorama – “dall’affetto e dall’amore che papà mi ha dato da quando sono nata?”.
La storia si ripete: Maria Concetta, che di anni oggi ne ha 36, è stata eletta nel Consiglio d’Istituto nel circolo della scuola elementare di Corleone frequentata dal figlio. E di nuovo si è detto: non è ammissibile, prenda le distanze dal padre e dai fratelli e li convinca a collaborare.
Con lei è schierata la figlia di Vito Ciancimino, che difende “Don Vito” e dice: “E’ difficile non amare il proprio padre”. Persino la figlia maggiore di Pietro Pacciani, Rosanna, a un certo punto difese il genitore, finito in carcere con l’accusa di essere il “mostro” di Sollicciano. Rosanna, come la sorella, era stata violentata dal padre per dieci anni. Sono per lo più le figlie che difendono i padri.
Francesco De Nardo è profondamente credente e questo lo aiuta certamente: “è riuscito a sopravvivere” – ha detto il criminologo Massimo Picozzi, che è stata consulente per la ragazza – “perché è un grande credente e perché è convinto che chi ha ucciso è la malattia della figlia, non la figlia”. Ma non basta, a mio avviso, a dare spiegazioni di tutto.
Ci sono altri punti interrogativi in questa vicenda. Ci si può chiedere se sia giusto un sistema giudiziario che riduce la pena scontata a due terzi di quella irrogata. Ci si può interrogare su quale assistenza psicologica abbia avuto Erika nei suoi anni di detenzione (durante i quali si è laureata in Filosofia con 110 e lode) e se questa sia servita a recuperarla alla società e a se stessa. Nel gennaio 2006 il difensore di Erika, Mario Boccassi, si lamentò osservando che nel carcere di Brescia la sua assistita non riceveva più un’adeguata assistenza psicologica. Non molto tempo prima Picozzi aveva osservato: “Erika è ancora un guscio vuoto, come quando ha ucciso, e quando uscirà dal carcere non sarà cambiato nulla”. Oggi che quel giorno è arrivato, le sue parole potrebbero pesare sulla coscienza di molti. Tanti si chiedono anche come il padre di Erika abbia potuto continuare a vivere nelle stesse stanze dove i due fidanzatini infierirono su sua moglie e sul suo bambino con 120 coltellate.
Domande senza ombra di curiosità morbosa, formulate a se stessi con rispetto e discrezione, solo per cercare di capire, presumendo che la comprensione possa aiutare ad approfondire e spiegare drammi come questo e come molti altri. E, se possibile, a prevenirli.
* presidente dell’ISP