di Elisabetta Boschi *
La Legge n. 194 che detta le “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione
volontaria della gravidanza” a distanza di ormai trenta anni dalla sua entrata in vigore fa parlare
ancora molto di sé, ma il risultato di tanto discutere non ha cambiato la Legge, che è ancora quella
originaria.
La legalizzazione dell’aborto fu votata con un referendum popolare in un periodo molto
particolare e difficile della vita sociale e politica del nostro Paese. Nei precedenti dieci anni l’Italia
aveva vissuto la rivoluzione sessuale del 1968, nel ‘70 il popolo si era espresso votando la legge
sul divorzio, che aveva già creato una spaccatura profonda nel tessuto sociale, e poi nel 1978 il
voto del popolo rende non più punibile la pratica abortiva demandando alla donna, indiscussa
destinataria del nuovo diritto, la decisione totale e finale di sopprimere il frutto del concepimento.
La protagonista unica è lei, la madre del concepito che perde subito il ruolo di donna, moglie o
compagna, all’interno di una relazione affettiva, per diventare madre e unica responsabile del
diritto di vita e di morte del concepito.
La legge n.194 è costituita da circa venti articoli che ne regolamentano ogni aspetto. Leggendo
bene, però, ogni punto della norma l’attenzione si ferma sull’articolo 5. E’ l’unico articolo in cui il
Legislatore fa riferimento al padre del concepito, ma il suo essere destinatario della norma è
subordinato al consenso della donna. Nel caso in cui questa non lo permetta, l’uomo non può
entrare nella decisione, non ne ha alcun diritto. Al padre è negato il diritto di partecipare alla
decisone della vita o della morte del concepito solo perché questo è ancora nel grembo materno,
mentre nel momento in cui il bambino nasce il padre ha solamente doveri da assolvere. Allora
perché non dare anche al padre il diritto di impegnarsi seriamente in questa decisione, che se
portata a termine con l’aborto, costituirà un trauma per tutti? Il padre non ha il diritto, secondo la
norma, di partecipare pienamente in questo momento così importante e decisivo per la vita della
coppia e per la vita di ognuno dei due nella loro individualità.
Presso i Consultori, gli Ospedali e dai medici di base sono molte le donne che arrivano da sole
per chiedere di far valere un proprio diritto, ma sono anche tante le donne impegnate in relazioni
sentimentali e tante anche quelle sposate. Molte di loro, pur avendo accanto a sè un uomo o un
marito, si rivolgono a queste strutture sanitarie senza che questi ne sappiano qualcosa (o, pur
sapendolo, non sono d’accordo) ma nulla importa, il diritto è solo loro. Il diritto, però, che si
arrogano in questi casi è di decidere anche per un’altra persona, che non è il concepito, ma colui
con il quale hanno concepito quella creatura, decidendo quindi anche la fine della relazione oppure
di tenere quel segreto tutto per sè.
Quale destinataria unica di questo diritto, la donna e l’esperienza abortiva sono state analizzate
a fondo soprattutto rispetto alle motivazioni e alle conseguenze della scelta. Secondo il DSM
(Manuale di Diagnosi dei disturbi mentali), l’aborto è un evento traumatico, produce uno stress tale
da creare disturbi alla vita psichica. Le conseguenze dell’aborto possono essere: disturbi
emozionali, delle relazioni affettive, della sfera sessuale, del sonno, dell’alimentazione e del
pensiero. A breve termine sono vissuti sensi di colpa, paura, rabbia, angoscia e vergogna. A lungo
termine i sintomi possono manifestarsi in occasione di una nuova gravidanza, di un aborto
spontaneo o di perdite affettive significative. La sintomatologia potrà essere varia e presentarsi con
disturbi d’ansia, attacchi di panico, per arrivare fino a disturbi dell’umore importanti e ad esplosioni
deliranti. Si potranno manifestare quindi tutti gli stessi segni presenti nel breve termine ma con un
valore amplificato dal tempo che passa e che non cancella l’evento.
Il lutto secondario ad un aborto che la donna si trova a vivere e a dover elaborare è senza
dubbio plurimo. Le perdite vissute sono tante; oltre alla perdita del bambino reale c’è la perdita del
bambino che nella mente della mamma già si era creato come fantasia, ma soprattutto c’è la
perdita di una parte della propria immagine, del proprio ruolo di madre, ma anche di figlia, di
donna, di moglie o compagna. Uno studioso italiano ha recentemente affermato che l’aborto
rappresenta anche l’uccisione del padre oltre che del figlio.
Nella storia della Legge n.194 ci sono stati uomini-padri che hanno combattuto per far sentire la
loro presenza, ma che da queste battaglie sono usciti sconfitti, se non nella piccola realtà di
qualche sentenza di Tribunale che qualche tutela anche al padre l’ha concessa. Una donna che
rimane incinta nella maggioranza dei casi, eccezion fatta per i casi di violenza o abuso, ha sempre
un uomo accanto; dovrebbe per questo averlo anche quando decide di non voler vivere quella
gravidanza. Molto spesso capita che l’uomo venga tenuto all’oscuro tanto della gravidanza quanto
della decisione di abortire. L’uomo da protagonista della storia d’amore può diventare, laddove
consapevole della situazione, spettatore dell’epilogo negativo della gravidanza oppure, se ignaro
del tutto, spettatore della disgregazione della sua relazione sentimentale. Il non veder riconosciuto
dalle legge il suo diritto alla paternità, ma soprattutto il non vederlo rispettato dalla donna è
un’esperienza altrettanto traumatica e stressante.
Le conseguenze della decisone abortiva non condivisa e combattuta sono per l’uomo non meno
importanti, anche lui vive un lutto molto doloroso. In quella gravidanza e nell’idea di diventare
padre aveva investito molto e anche lui era andato incontro a quel processo maturativo naturale
del diventare padre. L’accanimento giudiziale di tanti uomini è un forma di reazione al blocco
emozionale vissuto, è una controreazione ad uno stato depressivo profondo. Nel passaggio dalla
dimensione di coppia a quella genitoriale l’uomo si espone con tutto se stesso e si mette in gioco.
Il non permettergli di viverla e il non poter fare qualcosa per viverla rende l’uomo un essere fragile,
chiuso alla vita, con sempre maggiori difficoltà a ricostruire la sua dimensione affettiva, relazionale
e con una grande difficoltà a impegnarsi e a riprogettare un futuro.
Per quanto la legge 194 sia stata una vittoria per la quale in tanti hanno combattuto, è forse oggi
da ritenersi solo una battaglia vinta e non la guerra conclusiva per la tutela delle donne.
* psicologa. ISP Roma