di Maurizio Quilici *
L’editoriale dello scorso numero di questo notiziario si concludeva con un accenno all’istinto paterno. Un accenno che vorrei riprendere, assieme all’interrogativo che ne era alla base. Esiste l’istinto paterno? Dobbiamo preliminarmente chiarire la nozione di “istinto”, ammesso che sia ovvia quella di “paterno” (in realtà anche quest’ultima non è così univoca, potendo esistere varie forme ed espressioni di paternità: biologica, affettiva, adottiva, simbolica, sostitutiva…).
Ma la definizione di istinto conosce approcci diversi, diciamo almeno tre, a seconda che il termine sia utilizzato in psicologia (James, Morgan, McDougall, Tolman…), in etologia (con gli studi di Lorenz e Tinbergen) o in psicoanalisi (Freud in primis). C’è anche una interpretazione da parte della Psicologia della forma – o Gestaltpsychologie – una riflessologica, una “ormica” (o del bisogno). Insomma, addentrarsi in questa disamina, che pure abbiamo preteso essere preliminare, ci porterebbe troppo lontano. Meglio allora ricorrere ai dizionari di italiano, che nella loro obbligatoria concisione puntano sugli aspetti essenziali e più condivisi del termine. Trovo particolarmente chiara la definizione che ne dà Aldo Gabrielli: “Impulso naturale per cui gli esseri viventi compiono determinati atti utili o necessari alla propria conservazione, senza l’intervento della volontà e del ragionamento”. Tre gli elementi che rilevano, e che sono praticamente comuni a tutte le interpretazioni: l’aspetto filogenetico, ossia proprio della specie prima che dell’individuo; il carattere di utilità, o di necessità, dell’atto; la naturalità della spinta, che prescinde da volontà e ragionamento.
E torniamo alla domanda iniziale. Si può parlare di istinto paterno, così come da molto tempo ormai si parla di istinto materno?
Nel XVI secolo Montaigne considerava “l’affetto che il genitore porta a ciò che ha generato” (quindi un momento successivo alla riproduzione) come “qualche istinto che si veda universalmente e costantemente impresso nelle bestie e in noi”.
Per molti anni la psicologia ha negato questa possibilità. Tutta incentrata sullo studio dell’importanza della madre (sul cui istinto, nonostante gli indubbi condizionamenti sociali che negli anni Settanta portarono alla reazione contro la “mistica della maternità”, non mi pare possano esserci dubbi) essa non concepiva che nella paternità potesse esserci qualcosa di non appreso, di non sociale, di non culturale.
Nel 1949 la sociologa Ruth Nanda Ashen (La famiglia: la sua funzione e il suo destino, Bompiani, 1955) affermò, senza mezzi termini, che “non vi sono indizi, nella nostra specie, di qualche cosa come l’istinto paterno”. “L’associazione padre-figlio” – affermava poco oltre – “è secondaria, e deriva dal comune interesse verso la madre e dalla comune residenza con lei”.
I tempi (e anche i padri…) non consentivano osservazioni molto diverse, eppure la nostra Maria Montessori, per curiosa coincidenza nello stesso anno, ebbe una diversa intuizione. Pubblicava, in India, The Absorbent Mind (in Italia, nel 1952, sarebbe divenuto La mente del bambino, Garzanti), nel quale affermava che “la natura ispira ai genitori [il corsivo è mio] l’amore per i piccoli, e questo amore non è qualcosa di artificiale, di alimentato dalla ragione”. Ancora più chiaramente, nel 1950 (Il segreto dell’infanzia, Garzanti) scrisse che “l’istinto di maternità non è collegato solo con la madre, per quanto, procreatrice diretta della specie, abbia la massima parte in questo compito protettivo: ma è nei due genitori e talvolta pervade tutta una società di esseri”. Insomma, per questa studiosa l’espressione “istinto materno” si definisce come istinto di protezione della specie e in quanto tale non è appannaggio della sola madre, ma designa, “in genere, l’istinto-guida della conservazione della specie”.
Mentre le affermazioni di Montessori dovevano suonare scandalose ed erano certamente un’eccezione, oggi le posizioni sono piuttosto diversificate. Così la studiosa francese Edwige Auntier, in Elogio della madre (Mondadori, 2003) riprende e sostiene la teoria “culturale” della paternità, affermando che “Non sembra che si possa parlare realmente di istinto nel padre, ma piuttosto di un attaccamento che si costruisce nel corso degli scambi con il bambino. Il sentimento paterno è riflesso, cosciente, al contrario dell’istinto materno”.
L’antropologa statunitense Margaret Mead parlò di “potenziale biologico” a proposito dell’atteggiamento paterno da lei osservato dopo la seconda guerra mondiale, auspicandone il ritorno. Si noti che alla stessa studiosa viene attribuita la frase “il padre è una necessità biologica ma una disgrazia sociale”.
Il mondo animale, al quale è inevitabile rifarsi quando si parla di “istinti” (senza per questo che si possa tout court ridurre i comportamenti umani a quelli animali) offre molti esempi di istinto paterno, reso peraltro possibile da un conciliante atteggiamento materno (una collaborazione che spesso manca negli umani). Così R. Veylon, citato in un libro di Denis Wallon, Il bambino da 0 a 3 anni (Edizioni Paoline, 1992), osserva che “l’istinto paterno esiste in molte specie animali, ma non può manifestarsi se non grazie a un atteggiamento tollerante della madre”. Certe femmine di pesci affidano al padre la cura e la protezione, fin dalla nascita, della prole. Le femmine delle scimmie uistitì consegnano al padre i piccoli negli intervalli fra le poppate e li maltrattano se tardano a riprendersi il neonato.
Esempi classici di istinto paterno (qualcuno parla di “amore” paterno) sono quelli del maschio di pinguino imperatore, reso famoso dal film di Luc Jacquet La marcia dei pinguini (2005), o del cavalluccio marino, un padre che custodisce i piccoli appena nati nel suo marsupio, proteggendoli amorevolmente. Ma ve ne sono molti altri, specie fra gli uccelli. Jeffrey Masson ne ha dato ampie prove in un libro dedicato alla paternità tra gli animali, L’abbraccio dell’imperatore (Baldini & Castoldi, 2000).
Tornando all’uomo, qualcuno si mantiene su posizioni possibiliste. Come lo psicoanalista Claudio Risé, per il quale “è difficile dire se sia un vero ‘istinto’ oppure no” quel desiderio di paternità che spesso si manifesta negli uomini adulti, quando alla nostra identità di “figlio” si sostituisce quella, più matura, di potenziale genitore. Risé ricorda anche che alla pulsione sessuale si accompagna spesso “una spinta alla procreazione molto simile a ciò che chiamiamo ‘istinto’”.
Un altro psicoanalista, Massimo Ammaniti, osserva: “Più che di istinto paterno si può parlare di istinto alla genitorialità. E’ un fatto biologico, indispensabile alla continuazione della specie”.
In un recente convegno sull’infanzia e la famiglia, la sociologa Laura Zanatta ha affermato senza mezzi termini: “Non credo agli istinti, né materno né paterno. Negli atteggiamenti umani il fattore culturale prevale su quello naturale. E se fosse la natura, e non la cultura, a dettar legge non si spiegherebbe il grande cambiamento dei padri che indubbiamente c’è stato”. La psicologa Anna De Vanna Coppola (autrice, con Fulvia D’Elia e Lazzaro Gigante, del libro Di padre in padre, la meridiana 2008), intervenuta nella stessa occasione, ritiene che sia più preciso parlare “non di istinto, ma di desiderio di paternità”.
Qualche osservazione per concludere. Qualche anno fa, in una inchiesta del quotidiano francese Le Nouvel Observateur, il 70% degli uomini intervistati rispose affermativamente alla domanda se esista l’istinto paterno. Il che non significa automaticamente che detto istinto esista, ma mi pare certo significativo. Qualcuno non parla di istinto di paternità, ma ritrova nei maschi – almeno in quelli di oggi – un istinto di protezione, difesa, cura, tutela nei confronti del bambino. Che se non è istinto paterno certo gli assomiglia molto.
* presidente dell’ISP