Con una inversione a 180 gradi, la Cassazione ha detto basta al criterio del “tenore di vita matrimoniale” che per anni – pur con alcune attenuanti – ha informato le sentenze di divorzio (e anche, checché si dica, quelle di separazione). Si tratta, come è abbastanza noto, del criterio previsto dall’art. 155 C.C. come modificato dalla Legge 2006/54, il quale prevede che il giudice stabilisca, “ove necessario”, la corresponsione di un assegno periodico considerando cinque parametri. Il secondo di questi punti è “il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori”. In altre parole, il genitore tenuto all’assegno (nel 94,1% dei casi il padre) doveva garantire a moglie e figli lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (la legge citata fa espresso riferimento ai figli, ma va da sé che era l’intero nucleo madre-figli a beneficiare del principio).
Ora, questo appariva un assurdo (sconosciuto ad altri Paesi) illogico (separazione e divorzio impoveriscono entrambi e specialmente – almeno nel breve periodo – il padre), anacronistico (che senso ha quando la donna è giovane e ha le stesse potenzialità lavorative dell’uomo?) e infine diseducativo, perché, come scriveva Michele Serra a proposito del rapporto genitori-figli, “Nascere comodi invoglia a crescere comodi”. Vero è che in qualche caso la Cassazione aveva precisato che il mantenimento del tenore di vita precedente “costituisce un obiettivo solo tendenziale” (come nella sentenza 28 aprile 2006 n. 9878), ma il principio appariva saldamente sostenuto e applicato dalla giurisprudenza prevalente, nonostante qualche voce contraria si fosse levata anche da parte dei giudici. Merita, a questo proposito, ricordare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze, secondo il quale l’assegno divorzile legato al precedente tenore di vita sarebbe in contrasto con gli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione: relativamente all’art. 2 perché si tradurrebbe in un “eccesso di solidarietà”, costituendo un obbligo per il “coniuge debole” (si noti…) che si prolunga “ben oltre il matrimonio, anche per tutta la vita”; con l’art. 3 per “contraddizione logica”, visto che lo scopo del divorzio è quello di far cessare il matrimonio ma anche i suoi effetti; con l’art. 29 perché un simile obbligo risulta “anacronistico se si guarda all’evoluzione sociale della famiglia, al ruolo dei coniugi e all’incidenza dei divorzi”. La Corte Costituzionale, con sentenza 11 febbraio 2015 n. 11, giudicò la questione manifestamente infondata, poiché il tenore di vita goduto durante il matrimonio non è l’unico parametro di riferimento per decidere l’entità dell’assegno divorzile, seguendo così il solco di precedenti sentenze della Corte di Cassazione la quale aveva osservato che molti criteri agiscono come “fattori di moderazione o diminuzione della somma considerata in stratto” e possono anche azzerarla.
Con le seguenti, incisive righe la Cassazione, tramite l’Ufficio Relazioni con i mezzi d’informazione, ha dato notizia della sentenza in un comunicato del 10 maggio scorso: “Con la sentenza n. 11504/17, pubblicata in data odierna, in materia di assegno di divorzio, la Prima Sezione Civile ha superato il precedente consolidato orientamento, che collegava la misura dell’assegno al parametro del “tenore di vita matrimoniale”, indicando come parametro di spettanza dell’assegno – avente natura “assistenziale” – “l’indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge che lo richiede”.
Risparmieremo al lettore non giurista le disquisizioni, in sentenza, della Suprema Corte, i riferimenti a leggi e sentenze, articoli e commi, gli an debeatur e quantum debeatur… Diremo solo che i giudici, richiamandosi a una sentenza della stessa Cassazione a Sezioni Unite (la n. 11490 del 1990) nella quale si accennava all’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio “inteso come ‘sistemazione definitiva’”, hanno ammesso che “il parametro di riferimento – al quale rapportare l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente – è stato costantemente individuato da questa Corte nel tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”. Ora però, aggiungono, “a distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale”. Fra queste ragioni, il fatto che il tenore di vita “collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti (…) con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale”. Ma non era quanto sostenuto dal Tribunale di Firenze quando aveva sollevato questione di legittimità costituzionale? In effetti i giudici di Cassazione, nella sentenza, ricordano proprio quel giudizio della Corte Costituzionale “che ha sostanzialmente recepito” – osservano forse criticamente – “l’orientamento in questa sede non condiviso” .
I giudici della Cassazione vanno oltre e spiegano che è “ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità”, che “procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare” e quindi che non è configurabile “un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”.
La “svolta” della Cassazione è stata salutata da molte voci di apprezzamento e sollievo e giudicata “rivoluzionaria” da numerosi avvocati. Molti hanno ipotizzato un inevitabile riflesso sui giudizi di separazione. Qualcuno ha paventato un corsa alla revisione dell’assegno, producendo un aumento del contenzioso (e in effetti gli avvocati di Silvio Berlusconi si sono affrettati, pochi giorni dopo la sentenza, a inoltrare richiesta di revisione, per “decremento dei redditi”, respinta dai giudici della Cassazione che hanno confermato la somma di due milioni di euro mensili). L’AIAF (Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i Minori) parla di “rivoluzione copernicana” che saluta con favore, ma sottolinea “il rischio di una sua strumentalizzazione”.
C’è anche, naturalmente, chi ha criticato il nuovo orientamento dei giudici considerandolo una lesione ai diritti economici della donna divorziata. E chi, come l’avv. Maria Grazia Masella, Garante per l’infanzia e l’adolescenza del Comune di Matera, sostiene che si tratti di “tanto rumore per nulla”, di un vero e proprio “flop giornalistico”. In un comunicato Masella ha affermato che i criteri per l’assegno divorzile, già ben delineati dalla legge, rimangono gli stessi e che “al più si tratta di una sentenza chiarificatrice che puntualizza i criteri di previsione dell’assegno divorzile ma nulla più”.
Sarebbe interessante che qualche avvocato fra quanti leggeranno questo articolo dicesse la sua…