Ordinanza decisamente anomala in materia di separazione e affidamento, quella del giudice Felice Lima, del Tribunale di Catania, che ha suscitato perplessità e polemiche. Cosa ha fatto di tanto strano il giudice Lima, che in anni passati è stato PM antimafia e da tempo si occupa di diritto di famiglia? Anzitutto, pur rispettando la prassi giudiziaria (e la legge) e applicando l’affidamento condiviso, ha stabilito che il genitore collocatario dovesse essere il padre, con una decisione assolutamente controcorrente. Per la madre ha stabilito un assegno di 500 euro mensili per il mantenimento del figlio. Da notare anche che il giudice aveva stabilito una perizia medico-legale (strumento del quale è fautore) per accertare la idoneità dei genitori ad occuparsi del bambino e che entrambi erano risultati idonei.
Ma quello che ha fatto gridare allo scandalo è la frase – indubbiamente politically uncorrect – con la quale Lima ha argomentato la sua decisione. “Una maggiore ricorrenza statistica di provvedimenti giudiziari di collocamento di figli presso i padri” – ha osservato – contribuirebbe alla diminuzione del numero di’padri disimpegnati’ e ‘madri proprietarie’ che tanti danni arrecano all’educazione e alla serena crescita dei figli minorenni”. Ma il giudice è andato oltre, scrivendo nelle motivazioni della sentenza: “Vi è una tendenza diffusa ad affrontare il tema del collocamento dei figli sulla base di un non confessato pregiudizio di fondo per il quale: 1) i figli piccoli ‘sarebbero’ principalmente delle madri; 2) ai padri verrebbe solo consentito di esercitare i loro diritti/doveri; 3) il collocamento ‘naturale’ dei figli dovrebbe essere presso la madre; 4) il collocamento presso il padre dovrebbe ritenersi ‘innaturale’ ed ‘eccezionale’ e il provvedimento che lo dispone abbisognevole di motivazioni particolari e straordinarie, mentre invece lo stato del diritto e i dei principi etici generalmente condivisi nel nostro Paese è al contrario, poiché i figli sono di entrambi i genitori, che hanno uguali diritti e uguali doveri e, in mancanza di prove del contrario, entrambi sono idonei ad esercitare le loro responsabilità e a divenire collocatari dei figli”.
Merita anche riportare quanto ha scritto sull’ordinanza il quotidiano di Catania La Sicilia: “Il giudice istruttore Felice Lima è una delle massime autorità in tema di separazioni e divorzi, componendo la sezione etnea di famiglia che abbraccia quasi tutta la provincia, partecipando alle evoluzioni giurisprudenziali di merito sempre apprezzate dai giudici di legittimità”.
Le osservazioni del giudice Lima appaiono corrette, specialmente laddove si parla di “non confessato” (neanche tanto per la verità…) “pregiudizio di fondo”. A qualcuno, però, è parso che il giudice abbia applicato una ideologia piuttosto che rifarsi al caso specifico. Sul quotidiano la Repubblica ha così commentato la sociologa Chiara Saraceno: “Il giudice ha esplicitato una intenzione pedagogica generale, che esula dal caso specifico”. Saraceno mostra di apprezzare il principio ispiratore dell’affido condiviso, tocca la questione, “in effetti non secondaria sul piano pratico”, del genitore presso il quale viene fissata la residenza, ricorda che in alcuni Paesi (per esempio la Francia) ai figli di genitori separati vengono attribuite due residenze, una presso ciascun genitore (anche per “esplicitare fino in fondo il significato dell’affido condiviso”). Ritiene però che il giudice Lima sia incorso nello stesso errore di quei giudici che indicano nella madre il genitore convivente per puro pregiudizio, “in base alle proprie idee di che cosa sia meglio, senza valutare caso per caso”.
D’altro canto, vorremmo osservare, se entrambi i genitori erano risultati ugualmente idonei ad essere il “genitore convivente”, anche il Salomone del famoso apologo avrebbe avuto qualche imbarazzo. Decidere per la madre avrebbe significato uniformarsi alla prassi giudiziaria imperante (frutto in molti casi, come la stessa Saraceno riconosce, delle “proprie idee” e non della fattispecie); aver optato per il padre ha avuto quantomeno il merito di mettere il dito nella piaga, segnalando con una decisione “politicamente scorretta”, e perciò coraggiosa, uno degli stereotipi più diffusi nelle aule dei Tribunali italiani.