L’articolo del sociologo Arnaldo Spallacci dal titolo “Dalla violenza alla violenza di genere”, pubblicato sul numero scorso di ISP notizie, mi ha spinto ad una serie di riflessioni:
1) la violenza diversa nei generi: nel mito delle Amazzoni e nel racconto di Elettra compare la visione di una “violenza al femminile”, così nella storia da Giovanna d’Arco fino alle eroiche combattenti curde lo scontro è netto; ma non si tratta mai di violenza cieca e brutale, essa trova la sua origine ora nell’affermazione di indipendenza propria e della terra natia oppure nella riconquista della propria dignità. Gli uomini, invece, sono più spesso portatori e protagonisti di una distruzione senza pietà che, nei secoli, s’è fatta sempre più portata all’annientamento. Dalla distruzione di Troia alla Siria contemporanea, tutto quello che i maschi combattenti trovano sul proprio avanzare distruggono (persino la natura e l’arte) in nome di qualcosa che chiamano Dio o patria o razza: insomma il “nemico” non è degno di alcun rispetto.
2) Sulla questione di “genere”: è vero che sembriamo attratti dalla notizia in prima pagina, dal titolo di cronaca della violenza sulla donna con tutti i particolari più torbidi, si cerca sempre “il mostro” oppure l’irrazionale, ma questo rassicura, perché allontana la follia che alligna nella società stessa, accanto a noi. Così si trascurano la normalità ed il quotidiano delle molte coppie che affrontano la vita e la convivenza. Ma chi leggerebbe o si interesserebbe, davanti al teleschermo, del signor X che sorridendo, al mattino, ogni giorno, accarezza la moglie prima di uscire? Quelli che rispettano le regole e la vita nelle sue forme” non fanno notizia”. Certamente delle indagini qualitative aiuterebbero a descrivere meglio i fenomeni.
Ho infine la sensazione che soprattutto le nuove generazioni, nate nel web e nella loro “navigazione ininterrotta”, prendano tutto allo stesso modo, con l’esposizione mediatica ed il consumo rapido di ogni cosa dal “lontano” (guerre internazionali) alla cronaca locale compresa la violenza (vedi il bullismo ed altre amenità): qui dai pochi dati disponibili la differenza di genere nell’approccio alla notizia sembrerebbe più sfumata.
3) La violenza di “genere” – come definisce bene l’intervento di Arnaldo Spallacci – è diventata “paradigma”, stereotipo anche come facile “abbreviazione di analisi” di molti casi diversi; in realtà mi soffermerei sulla “violenza di rapporto” alla cui base stanno fattori educativi sociali e caratteriali tutti fondanti del modo di rivolgersi all’altro da sé, in strada ed in casa, in auto e con la natura; certo nel maschio prevale una modalità di aggressione tipica, ma occorrerebbero indagini specifiche, nelle scuole soprattutto – visto che ormai altri luoghi di aggregazioni sono in crisi – sulla costruzione dell’io nella società attuale
4) Quanto all’amore civile – ricordo bene la definizione e la ricerca dello stesso Spallacci – si tratta di indagare quali bisogni o somma di bisogni oggi spingano alla ricerca dell’altro, a bruciare energie, tempo, passioni e sentimenti, notti e giorno, stagioni ed anni. Dalle canzoni ai film, dalla letteratura alla tv, un “gorgo di amore” che fin da piccini ti suggerisce che senza amore non sei nulla. Il “vero” quotidiano mostra però che, come ogni cosa, l’amore passa, può passare e magari scopri che l’altro/a è diventato estraneo/a. Mi viene in mente il ruolo di Eros e Thanatos nel mito, perché amare è come morire in parte o in tutto, consegnare la vita a lui/lei, nelle mani che accolgono ma poi improvvisamente si ritraggono, è dolore, incertezza, rischio. Allora scatta in troppi (?) il cortocircuito, la violenza come difesa irrazionale: “senza di te non vivo”. Oggi la caratteristica del nostro vivere mi pare sempre più una ricerca spasmodica di contatti, il cellulare sempre acceso, la corsa agli amici in FB, il chiasso della movida, in breve “mai soli”.
Sono sempre più convinto che solo la difficile accettazione di “potere stare soli” , di accogliere il silenzio come momento essenziale del pensiero e dell’indagine sui propri sentimenti anche contraddittori, possa aprire la via per la ricerca di un’altra consapevole “solitaria indipendenza” che chiede rispetto ed ascolto, ma questo torna ad essere un percorso educativo in senso ampio.
(Emilio Molinari, Milano)