Claudio Risé,
Il ritorno del padre,
San Paolo, Milano 2022
pp. 220, € 18,00
Torna a occuparsi del padre Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista noto ai lettori di questa Rubrica (e non solo, naturalmente) per i suoi libri e i suoi studi sul maschile e sulla paternità. Lo fa a ragion veduta, dopo aver percepito una tendenza inversa a quella che lo portò, nel 2003, a scrivere del padre come di un “assente inaccettabile”. Sono trascorsi 20 anni e per Risé quel padre che era stato svilito, accantonato, estromesso sta tornando a testa alta e chiede di contare di nuovo. Per la verità, quel padre non aveva mai smesso di chiedere di contare (non si era mai arreso, ma la sua voce cadeva regolarmente inascoltata). Non per tornare al patriarcato di una volta, naturalmente, al “padre padrone” di Gavino Ledda, ma per prendere il posto – nella famiglia e nella società – che natura e cultura gli hanno assegnato, con i ruoli e le funzioni complementari e imprescindibili rispetto a quelli materni.
Che negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso la figura del padre si fosse indebolita (io stesso lo definii “Padre ombra” in un libro del 1988) è indubbio. La contestazione giovanile del dogma patriarcale (e di molti altri dogmi) nata nel ’68 – scandita da testimonianze letterarie, saggistiche, culturali… – scalzò il padre dal suo piedistallo e lo indirizzò verso il padre-amico, il padre-compagno. E verso il padre “secondario”.
Purtroppo fu una sostituzione infelice, gravida di conseguenze. E tuttavia non dobbiamo dimenticare che fu anche per quella trasformazione – favorita dai molti cambiamenti in campo femminile – se il padre scoprì dimensioni nuove della paternità, si addolcì, provò nuove emozioni e soprattutto la capacità, mai trovata prima, di esprimerle. Un cambiamento epocale (di “rivoluzione paterna” ho parlato e scritto spesso) che come tutti i grandi cambiamenti portò con sé errori ed eccessi, novità e riflussi, paradossi e sorprese. Perdita totale del principio di autorità; scomparsa del conflitto generazionale (dove il conflitto assume una sua funzione educativa e catartica); svalutazione sociale e legale; attenuazione della funzione di cesura del rapporto, altrimenti simbiotico, madre-figlio, nonché della funzione educativa, corrotta da quella esclusivamente ludica; perdita del rapporto verticale a favore di un rapporto orizzontale padre-figlio… Sono alcuni degli aspetti che caratterizzarono la figura del padre in quegli anni, dei quali il padre stesso era in parte – ma solo in parte – responsabile. Senonché – ripeto – il padre di quegli anni non fu solo quello. Fu anche il padre che “scoprì” la paternità, scoprì che diventare padre e fare il padre non sono la stessa cosa, riconobbe nel figlio, da subito, un meraviglioso interlocutore, trovò il coraggio di manifestare dubbi, incertezze, paure, di esprimere dolcezza, tenerezza… E avviò un percorso totalmente nuovo. Un uomo, un padre, meno forte? Forse, ma certamente più umano.
Risé ha una precisa impostazione ideologica e religiosa e non ne fa mistero neanche in quest’opera. Utilizza in abbondanza citazioni e riferimenti di carattere religioso, che a un laico potranno facilmente sembrare sovrabbondanti. E anche in questo libro assegna gran parte delle colpe, in quell’appannarsi del padre, alla secolarizzazione e alla “cacciata del sacro” iniziata con la Riforma e proseguita con la rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, e infine la società dei consumi del “boom” del dopoguerra: una “Grande Madre” che vizia l’individuo e lo induce alla regressione e all’infantilismo. Una società che conosce il divorzio, l’aborto, la diffidenza verso il matrimonio… Così fino agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso e ancora più vicino a noi.
Oggi – ci dice Risé – il padre sta tornando. Lo dimostra la diminuzione dei divorzi negli Stati Uniti (gli USA “apripista”) che da anni – osserva Risé – investono centinaia di migliaia di dollari all’anno sulla famiglia per compensare l’assenza del padre. Identica tendenza è rilevata in Europa, a partire dal 2010, in particolare in Gran Bretagna. Ma non in Italia, dove invece le percentuali di divorzi viaggiano alla grande e quelle dei matrimoni sono in continua contrazione. Sulla situazione italiana Risé disegna un quadro che conosciamo bene: “assegnazione preferenziale alla madre” nelle separazioni con affidamento dei figli, leggi in materia “che hanno fino ad oggi esplicitamente favorito la posizione della madre”, padri separati che costituiscono il 46% dei “nuovi poveri” assistiti dalla Caritas.
Contro l’aborto e il divorzio Risé combatte da anni la sua battaglia culturale e molte pagine del libro insistono su questi punti. Ed è vero (l’ho sostenuto in tante occasioni) che la Legge 194 del 1978 sulla interruzione volontaria della gravidanza è fortemente discriminatrice nei confronti dell’uomo, laddove, all’art. 5, stabilisce che l’uomo può essere “informato” solo “ove la donna lo consenta”, ma questo non toglie, a mio avviso, la legittimità sostanziale di quella legge e il fatto che l’ultima decisione debba spettare alla madre.
Quanto agli esempi citati di alcuni Stati americani dove fioriscono iniziative anti-aborto (altri esempi in Francia, Inghilterra, Italia) non mi sembrano molto probanti, visto che provengono da due Stati – Tennessee e Texas – del Sud più profondo, retrivo e storicamente razzista.
Per tornare brevemente al “ritorno del padre”, l’Autore individua altri due segnali indubbiamente significativi: il fenomeno dei giovani padri che “lasciano la Grande Madre azienda per occuparsi dei loro bambini e delle loro donne” (come camperanno? mi chiedo. Forse con il lavoro della compagna?) e quello dello smart working, che ha permesso a tanti padri di scoprire una dimensione nuova di vita e di lavoro. Fenomeno, quest’ultimo, di cui come sappiamo l’I.S.P. si è occupato in prima persona, con una ricerca che viene commentata in questo stesso numero del notiziario ed ha suscitato l’interesse di molti. Compreso quello di Claudio Risé.
Richard Powers
Smarrimento,
La Nave di Teseo, Milano 2021,
392, € 20,00
“Condividono tante cose l’astronomia e l’infanzia. Entrambe sono viaggi lungo enormi distanze”. Ecco: per cercare di colmare queste distanze vive il protagonista del libro di Richard Powers, l’astrobiologo Theodore Byrne, che scandaglia insieme le misteriose profondità del cosmo e le altrettanto profonde e sconosciute terre dell’infanzia del figlio Robin, di nove anni. Un’infanzia “diversa” da quelli di tanti altri bambini e perciò ancora più distante, quella di Robin, che è senza mamma – un’attivista ambientalista appassionata di birdwatching, morta due anni prima in un incidente d’auto – e che soffre di disturbi non ben diagnosticati, ma che probabilmente attengono alla sindrome di Asperger. Almeno stando ai medici, perché il padre di Robin la pensa diversamente: “Sognava a occhi aperti, aveva qualche difficoltà a rispettare le scadenze, e sì, si rifiutava di concentrarsi su cose che non lo interessavano”. Per l’uomo, la perdita della madre, a cui era seguita qualche mese dopo quella dell’amato cane, e i tormenti ai quali lo sottopongono i compagni di classe perché lui non comprende “i loro feroci pettegolezzi” sono motivi sufficienti a spiegare il suo comportamento disturbato.
La vita di Byrne è tutta tesa a curare il figlio con terapie che escludano psicofarmaci (come il famigerato, e tanto diffuso in America, Ritalin), il che lo porta a scontrarsi spesso con preside e insegnanti della scuola del figlio. E’ assillato dai dubbi sui comportamenti da tenere (prima ancora di diventare padre: “Mi spaventava tutto riguardo all’educazione genitoriale”), ma quale genitore, anche con figli “normali”, non ne ha? E comunque lotta tenacemente, spinto da amore paterno, per la felicità del figlio. Arriva a cedere alle insistenze di un collega neuroscienziato (ex psichiatra clinico, già innamorato della defunta) e a sottoporre Robin a sedute di un intervento comportamentale definito “feedback decodificato”: una procedura che vorrebbe essere erede della psicoterapia convenzionale e che, attraverso uno scanner, induce una sorta di empatia con le emozioni positive di altre persone preventivamente registrate, atta a superare le tensioni. Nel caso di Robin consiste nell’assistere alle registrazioni dell’attività cerebrale della madre, con la quale stabilisce un contatto emozionale. Tutto questo, però, finisce con l’attrarre i media e Robin rischia di essere trasformato in un fenomeno da baraccone e di perdere il fondamentale contatto con il padre. Dalla madre recepisce l’impulso a battersi per la difesa del pianeta e diventa una star della causa ambientalista.
Il “feedback decodificato” sarà sospeso quando susciterà reazioni negative in certi ambienti scientifici (ma soprattutto politici) e la spasmodica, sofferente sensibilità di Robin scatenerà nel bambino crisi sempre peggiori (prima l’investimento in auto di uno scoiattolo da parte del padre, poi la visione di un filmato con centinaia di mucche colpite dal morbo della “mucca pazza”).
Il libro si chiude con un viaggio, simile a quello con cui si era aperto: un viaggio padre e figlio nelle Rocky Mountains: stessa baita, stessa natura, stesse emozioni. Bellissimo il dialogo fra i due nella notte, sui misteri dell’universo (“Volammo intorno all’universo per molto tempo”). E che cos’ è più grande, lo spazio cosmico o quello interiore? E’ una domanda che aleggia tra le pagine di tutto il libro. L’amore per la natura, la spinta a salvare l’ambiente tradirà Robin. E Theodor Byrne cercherà di rispondere a quella domanda ricorrendo a sua volta allo scanner, al “feedback decodificato”. Perché “l’amore è feroce come la morte”.