Annalisa Murgia – Barbara Poggio,
Padri che cambiano
Edizioni ETS, Pisa 2012,
pp. 236, € 24,00
Il libro nasce da un’esperienza: un ciclo di seminari sui cambiamenti nelle pratiche di paternità organizzato all’Università di Trento nel 2009 e rivolto soprattutto ai padri (con un livello di coinvolgimento e partecipazione di questi che viene definito “particolarmente significativo”). L’opera è divisa in tre sezioni: la prima affronta il tema sotto i profili culturale, psicologico e sociologico. La seconda tratta il fenomeno dei padri separati e divorziati (con particolare riferimento alla funzione mediatrice della madre) e quello dei padri omosessuali. La terza prende in esame paternità e mondo del lavoro, analizzando in particolare l’utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri (manca invece una riflessione sulle conseguenze per la paternità della perdita del posto di lavoro). Nel complesso un quadro ampio e documentato dell’universo-padri. Peccato che a volte i dati citati non siano recenti, come nel caso del ricorso ai congedi parentali. Questo, però, non dipende dagli autori, bensì dalla oggettiva – e significativa – mancanza di dati disponibili.
Volfango Lusetti,
Funzione del padre e psicosi,
Armando Editore, Roma 2008,
pp.95, € 10,00
Dopo Freud, che alla figura del padre assegnò un posto di rilievo nel suo impianto teorico e clinico, la psicoanalisi ha molto ridotto il ruolo della figura paterna nella genesi dei disturbi mentali, concentrandosi maggiormente sulla madre. Non è d’accordo con questa tendenza l’autore, psichiatra, che cerca invece di riscoprire l’importanza del padre nella eziologia dei disturbi della mente, a cominciare dalla psicosi. Per far questo, Lusetti comincia con l’attuare una revisione critica della classica distinzione fra nevrosi e psicosi, come come la delineò Freud nel 1924. L’opera è incentrata sul pensiero di Jacques Lacan, che molto esplorò il rapporto fra la funzione simbolica del padre e il disagio mentale del figlio. Ciò fa sì che il linguaggio del libro risenta a volte dell’oscurità del linguaggio lacaniano e che l’opera non sia di facile lettura per chi non ha dimestichezza con il pensiero, e soprattutto con il lessico, lacaniano.
Massimo Recalcati,
Il complesso di Telemaco,
Feltrinelli, Milano 2013,
pp. 153, € 14,00
Dopo il gran successo di Cosa resta del padre, edito nel 2011 (cfr. ISP notizie n. 3/2011), era prevedibile che l’autore tornasse sull’argomento. Lo diciamo senza alcuna malignità, perché, come l’altro, anche questo libro di Recalcati merita il suo posto nella ormai sterminata bibliografia sui padri.
Molti aspetti relazionali di oggi sono presi in esame da Recalcati nell’affrontare il rapporto genitori-figli, in una panoramica ampia che solo apparentemente può apparire scollegata con il tema centrale, chiarito nel sottotitolo del libro: Genitori e figli dopo il tramonto del padre. In realtà ne costituisce la cornice naturale. Così la nuova rappresentazione dell’uomo di oggi, homo felix spinto da un’unica legge, quella del godimento: “Godere è l’imperativo superegoico del nostro tempo”. “Disagio iperedonistico della civiltà” lo definisce Recalcati, che spesso ne ha fatto oggetto di riflessione – e critica dura – nelle sue opere.
Altro tema, il compulsivo ricorso alle Legge dei giudici, anche in tema di famiglia, essendo venuta meno la Legge simbolica, a testimoniare “una minorizzazione generalizzata degli adulti”.
E ancora la confusione tra generazioni, con gli adulti che in realtà sono “i veri bamboccioni di oggi”.
Visione tutta negativa e pessimistica quella di Recalcati? No, perché “il vuoto del padre non è solo abisso senza fondo, ma anche apertura di nuove possibilità” e “l’evaporazione può aprire potenzialmente all’invenzione”. Del resto, anche al padre si aprono nuove prospettive, nuovi compiti, primo fra tutti quello di testimoniare “come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità”. Per Recalcati, la domanda di padre dei giovani di oggi, formulata attraverso mille disagi, non è quella di ordine e di disciplina, ma, appunto, quella di testimonianza: il padre deve “mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso”. Così come compito educativo fondamentale dei genitori rimane quello di trasmettere il desiderio, che è “la prevenzione più forte nei confronti della tendenza della vita a disperdersi nel godimento mortale”. I giovani di oggi sono come Telemaco: “domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una Legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte nel mondo”.
Telemaco è l’esempio giusto di figlio, il giusto erede (Recalcati insiste molto sul concetto di eredità e sulle sue distorsioni): infatti, c’è in lui un’anima “nostalgico-evocativa” ma anche una “pratico-attiva”. Telemaco non attende passivamente, agisce, rischia, si proietta in avanti. Anche per questo può ereditare nel modo giusto e ricevere il desiderio, che è “la posta in gioco di ogni autentica eredità”. Incontrando l’Altro, riconoscendo il debito simbolico che lo lega all’Altro. In questo senso “l’eredità è il principio a fondamento di ogni filiazione” e quando fallisce genera smarrimento, disagio, sofferenza.
Anche per Recalcati, esponente della scuola lacaniana, vale quanto detto sopra a proposito del libro di Lusetti: il linguaggio, al lettore che non abbia una discreta confidenza con la psicoanalisi, meglio se lacaniana, può riuscire piuttosto ostico.
Marina D’Amato,
Ci siamo persi i bambini,
Feltrinelli, Milano 2014,
pp. 175, € 12,00
Ci sono ancora i bambini, ma non c’è più l’infanzia. Del resto, quelli sono sempre esistiti, questa no. Con questo assunto molto intriguing Marina D’Amato affronta uno dei temi più scottanti della odierna pedagogia (e sociologia, psicologia, storia…): quello di un’infanzia costretta a adultizzarsi da adulti che si sono abbondantemente infantilizzati. Dopo aver percorso rapidamente le tappe storiche di un’infanzia anticamente assente o, al più, vagamente definita fino al Rinascimento, e poi nell’età moderna, fino ad arrivare al puerocentrismo dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, D’amato prende in esame una lunga serie di tratti che caratterizzano i genitori post-moderni, soprattutto una evidente “mancata assunzione di responsabilità”. Delega “emotiva” al sociale, profusione di beni di consumo – abbigliamento, meglio se griffato, mobilio, giocattoli, gadget elettronici… – importanza negata alla durata del tempo da trascorrere con i figli in nome della “qualità” del tempo stesso sono alcuni dei segni che connotano il finire di un’epoca (quella della “subcultura puerocentrica dell’infanzia”) e l’aprirsi di nuove prospettive quantomai complesse e ambigue.
Per D’amato sembra ormai che sia il figlio a dare “senso e stabilità alla coppia” sempre più fragile. Questo comporta inevitabili conseguenze nello stile educativo: “il genitore di oggi appare non tanto interessato a educare, cioè a tirare fuori (ex-ducere) dal bambino le sue potenzialità, ma piuttosto a sedurre”. Altra conseguenza, il rallentamento del processo di distacco dalla famiglia. Un breve paragrafo sui “nuovi” padri rileva la “confusione dei confini e delle differenze tra padre e madre” e l’emergere di nuove figure di genitori: padri che “sanno assolvere con naturalezza le funzioni materne che la cura di un bimbo prevede sin dalle prime fasi di vita”, madri che da un lato ripercorrono il mito della Grande Madre mediterranea – quella che “coglie ogni moto del ‘bambino’, comprende tutto, perdona tutto, sopporta tutto” – dall’altro presenta la grande novità della condivisione. Dubbi, consigli, timori per la prole non trovano più eco in mamme, nonne e zie, bensì nel partner, negli “esperti” (pediatra e psicologo) e soprattutto nella Rete, dove decine di siti e di blog orientati sul materno sono pronti ad ascoltare, suggerire, indirizzare, correggere.
Avvalendosi anche di dati statistici e con lo stesso piglio ed entusiasmo [vivacità] con i quali tiene i corsi di sociologia all’Università Roma Tre, Dipartimento di Scienze della formazione, D’Amato analizza luci e ombre del rapporto tra bambini, media e social network, distante tanto dagli “apocalittici” (tutto ciò che è di negativo nei nostri bambini e ragazzi è da attribuirsi ai media) quanto dagli “integrati” (i media offrono stimoli per elaborare le proprie opinioni, consentono di conoscere il mondo e sentirsi partecipi di una comunità più vasta).
L’ultimo capitolo sviluppa un’osservazione quantomai appropriata: “Ancor prima che di attenzione, il bambino è oggetto di preoccupazione”. Del resto, “essere preoccupati è molto più facile che essere attenti”. Scrive D’Amato: “Se la ragione per cui non abbiamo insegnato ai bambini la capacità di crescere senza perdere l’orientamento è da ricercarsi nella dimensione del possesso materno che tanto caratterizza la nostra cultura, è anche vero che siamo stati capaci di inventare un modello educativo in cui la preoccupazione è diventata l’alibi dell’attenzione”. Per le madri e per i padri.