Alice Ceresa,
La morte del padre
La Tartaruga, Milano 2022
pp. 75, € 16,00
A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro – repêchage quantomai opportuno per l’I.S.P. – tornano due libri di Alice Ceresa che fanno parte di una trilogia tutta incentrata sul padre: La morte del padre (1978) e La figlia prodiga (1967). Manca, a completamento, Bambine (Einaudi 1990) che è ormai esaurito e di cui si auspica e si prevede una imminente, nuova edizione a completamento della suddetta trilogia.
Nell’attesa, parliamo del primo. E diciamo due parole sull’autrice, ignota, suppongo, alla gran parte dei lettori. Nata nel 1923 in Svizzera, a Basilea, in una famiglia dominata dalla figura paterna come era ovvio e “naturale” vuoi per i tempi vuoi per la collocazione geografica, lasciò la casa del padre nel 1939, a 16 anni (il primo di molti gesti di disobbedienza) alternandosi tra la costa francese e Zurigo, dove conobbe molti fuoriusciti italiani fra i quali Ignazio Silone, Franco Fortini, Luigi Comencini.
Senza clamori e senza grandi esternazioni, Ceresa studiò per tutta la vita il mondo femminile e il suo rapporto – inevitabilmente squilibrato – con l’universo maschile della sua giovinezza. Non fu certo ignota agli scrittori italiani suoi contemporanei (Parise la candidò al Premio Viareggio Opera Prima, che lei vinse nel 1967 con La figlia prodiga) ma la modestia – quantitativa intendo – della sua produzione e il carattere schivo e riservato con il quale approfondiva i suoi temi, anzi il “suo” tema, quello femminile, non le permisero mai una parte da protagonista sulla scena letteraria italiana.
La morte del padre è un racconto scritto d’impeto, in pochi giorni, dopo la morte del genitore, avvenuta nel 1977, quando Alice aveva 54 anni. Fu pubblicato nel 1979 sulla rivista Nuovi Argomenti diretta da Attilio Bertolucci, Alberto Moravia, Enzo Siciliano. La morte del padre – cui neppure il trapasso riesce a togliere il carattere di patriarca che ha dominato l’intera famiglia, pur essendo ora “finalmente indifeso alla mercé dei vivi” – viene vissuta e interpretata da ognuno dei membri della famiglia: la madre, il figlio, la figlia maggiore e quella minore (figura autobiografica, quest’ultima). I gesti e i pensieri con i quali i vivi accompagnano ogni morte sono distillati e scarnificati, mentre la figura del padre subisce una lunga serie di metamorfosi e va sfumandosi e sgretolandosi “negli autonomi luoghi della mente degli altri”. Lentamente, nelle due notti che seguono la morte, il padre, “scomparso dalla sfera visiva”, viene “densamente e totalmente assimilato per altre vie e sicuramente ormai partecipando dal profondo e in perfetta collaborazione e addirittura comunione alla formulazione delle nuove immagini, in stato di quasi totale felicità, comunque espressivamente: il che è un ultimo regalo che essa gli fa in quanto il padre non ha avuto mai facilità o felicità di espressione”. Questa breve citazione segnala la prosa tutta particolare di Ceresa, scandita, abbastanza ermetica, “rarefatta fino all’astrazione” come è stata definita.
In un lento dissolvimento il padre si ritrae da se stesso allontanandosi anche “dalle innumerevoli forme degli oggetti quotidiani, perché questo è l’ultimo compimento personalissimo e privato, per quanto furtivo e soltanto imprecisamente avvertibile, dei morti”. Egli abbandona anche i luoghi e le cose: le fotografie, gli indumenti, le scarpe (“forse soltanto simulacri destinati a far pensare che siano comunque troppe, quando alla uscita dalla scena di un morto non serve nemmeno un unico paio”). E poi “carte, attrezzi e cianfrusaglie (…) gli ultimi che cedono un lontanissimo residuo di calore”. Il “linguaggio” e il destino di questi residui del morto – che sono poi l’ulteriore motivo di lacerante sofferenza per chi rimane e vi pone ordine – sono osservati dall’autrice con chirurgica lucidità.
Questo per quanto riguarda il morto. Ma lei, la figlia minore, come vive questo distacco dal padre? Lei è nella sua camera, seduta sul letto, che “seziona e taglia nel proprio interno, nell’ impossibile tentativo di sbucciare una qualche urgente ragione della sua odierna e forse non troppo momentanea infelicità, sepolta in un fondo e inaccessibile nucleo centrale”. E’ lì che va ricreando (ma fuori di lei) “un essere sconosciuto e autonomo di cui si sa e si è conosciuto poco o nulla”, in poche parole “un padre estraneo”. Alle prese con un padre concettuale, si chiede: “Che cosa è mai un padre se non una imposizione di comportamenti, recepito conseguenzialmente e senza alcuna particolare attenzione: eppure è con questi vuoti connotati che si trasferisce senza ricorso nella vita dei figli”. Per un attimo c’è la tentazione di costruirsi “un padre sostitutivo”, subito abbandonata. Purtroppo non c’è soluzione, come non c’è soluzione alla morte: “la figlia minore sperimenta per la prima volta, e come un’eco, un altro abbandono e un’altra solitudine”.