Alessandra Salerno
e Monica Tosto (a cura di)
Gli scenari della paternità nella psicologia contemporanea,
FrancoAngeli, Milano 2019,
p. 190, € 26,00
I lettori di questa Rubrica sanno che essa non prende in esame solo testi appena pubblicati, ma – rimediando il curatore della Rubrica stessa ad una disattenzione bibliografica, sempre possibile nel mare magnum delle pubblicazioni – “ripesca” anche opere non recentissime, purchè significative e – nell’auspicio del medesimo curatore distratto – utili al lettore. E’ il caso di questo lavoro a più mani, che opportunamente fa il punto sugli studi relativi alla paternità e ci aggiorna non con “scoperte” rivoluzionarie ma con ricerche, dati, riflessioni recenti. Il che periodicamente si rende quantomai opportuno a chi voglia seguire la materia.
Gli Autori – un folto gruppo fra psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori – si sono divisi il compito trattando l’ampio tema in otto capitoli. Tutti interessanti e proficui, ma naturalmente la mia attenzione è stata attratta da quei capitoli che hanno preso in esame aspetti in passato più trascurati dalle ricerche “classiche”. Come quello sulla transizione alla paternità con i suoi possibili risvolti patologici, suddivisi dagli Autori in acting della paternità, psicosi puerperali paterne e Depressione Perinatale Paterna. O come quello relativo alla paternità adottiva: una genitorialità molto specifica, solitamente poco studiata rispetto alla maternità. E ancora: essere padre di un figlio con disabilità; le trasformazioni della famiglia, con il padre nella famiglia monogenitoriale; la paternità nella separazione e nel divorzio (con l’ascolto del minore, i nuovi partner, la consulenza tecnica d’ufficio…,). Un altro capitolo esamina brevemente la nozione di padre in Freud e Lacan, trasferendo la prospettiva lacaniana nel lavoro clinico con i bambini. Il libro si era aperto con la evoluzione storica della paternità; si chiude con riflessioni sulla crisi del principio paterno (la lacaniana “evaporazione” del padre). Ogni intervento, nel suo specifico argomento, rileva la assoluta necessità di una figura paterna. A questo punto mi sia permessa un’osservazione: ho parlato, come solitamente si usa, di Autori del libro, ma in realtà dovrei scrivere Autori e Autrici. E queste ultime sono la grande maggioranza (16 rispetto a 6). Notazione che non dovrebbe avere alcun senso, trattandosi di un lavoro scientifico, eppure a volte la “presunzione di genere”, anche nei lavori scientifici, condiziona la ricerca e vizia le riflessioni (gli esempi non mancano).
Mi sembra che le opinioni di tutti/tutte possano riassumersi in quanto è scritto nelle Conclusioni del secondo capitolo (quello sulla transizione alla paternità), ad opera di Monica Tosto, Iolanda Raciti, Alessandra Salerno: “Alla luce di quanto trattato, si ritiene che la figura paterna ricopra un ruolo di fondamentale importanza per la crescita di ogni bambino; tale figura inoltre, si costituisce come fulcro della famiglia, non è secondaria e di sfondo, rappresenta l’essenza stessa del nucleo familiare inteso come triade relazionale (madre-padre-bambino), e ad essa si ricollegano la salute e il benessere degli altri componenti”.
Anny Romand,
Abbandonata,
La Lepre Edizioni, Roma 2022,
p. 106, € 15,00
(Traduzione di Laura Tasso)
Abbiamo mai provato a metterci nei panni di chi non ha mai conosciuto un padre (o, meno di frequente, una madre)? Difficile empatia, perché, come scrive l’autrice, “esistono padri di ogni genere, affettuosi, indifferenti, violenti, assenti, ma ci sono”. Lo strazio è quando quel padre non c’è, non c’è mai stato. Difficile empatia, dicevo, eppure leggendo questo libro possiamo avvicinarci a quel mondo interiore sovrastato da un’assenza, da un fantasma che di continuo ricorre. Attraverso uno stile asciutto, secco, improvviso – come improvvisi sono i sussulti di chi ha aspettato per 40 anni un padre che l’aveva rifiutata fin dalla nascita – seguiamo con la piccola Annie che diventa donna il cammino che la porterà a incontrare quel padre. Sullo sfondo della storia materna, l’unica che lei conosca, il genocidio degli Armeni.
Bastano poche parole, poche frasi, a scolpire le sensazioni, i sentimenti, le emozioni: “Tutto ciò che per gli altri è naturale io lo invento, lo immagino, lo creo”. E ancora: “Piangere tutto il tempo perduto a sognarlo, immaginarlo accanto a sé, a sperare di incontrarlo perché la riconoscesse come figlia. A dieci anni piangeva a letto ogni sera, lacrime solitarie. (…) Quei pianti sono durati per qualche settimana, ogni sera, con una precisione da orologio. Poi sono spariti, senza spiegazioni. Un’angoscia di vita, di morte, di quello che accadrà”.
Come tutti i bambini che hanno un padre (e ancor più quelli che non l’hanno) Annie fantastica su quel genitore, che ai suoi occhi assume “tutte le qualità del mondo, in ogni caso qualità diverse da quelle di sua madre” (e si noti che Rosy, la madre di Annie, non ha mai saputo chi fosse suo padre). E’ dunque – nella sua immaginazione – un uomo affascinante: ricco, spigliato, dotato di umorismo, potente e stimato, sicuro di sé.
E’ difficile la ricerca di un amore che non c’è mai stato: “Si possono amare soltanto coloro che ti hanno cresciuta, coloro che hai cresciuto, coloro con cui vivi”. E tuttavia un giorno Annie, divenuta donna, bussa alla porta di quell’uomo. Le apre la moglie del padre. Accogliente, quasi affettuosa. Le prepara il tè, le fa conoscere una sorellastra di cui ovviamente Annie non sapeva l’esistenza (ma ci sono anche quattro fratellastri). E fra le tre donne si stabilisce una corrente di umanità, di simpatia, “un calore umano femminile dal quale gli uomini si escludono da sé”. E il padre? E’ seduto placidamente in poltrona, le mani sulle ginocchia. Un uomo “che non dice niente, che non ha detto niente, che non dirà più niente”, un uomo che “sorride ingenuo”, è malato e forse nemmeno ha capito chi è lei. Gli occhi di lui sfuggono, scivolano via, come fecero quando Rosy, la madre di Annie, gli disse che aspettava un bambino. Non c’è nulla, in lui, che possa ricordare il padre immaginario di quando lei sognava. “Niente in lui è riconoscibile, affascinante, attraente, seducente”. Ci sarebbe un conto pesante da presentare a quell’uomo, che l’ha privata non solo del suo patrimonio finanziario, ma quel che più conta di quello genetico: “Non ha conosciuto i nonni, i bisnonni. Da dove venivano? Che mestiere facevano? Cosa hanno realizzato, le loro aspirazioni, niente, neppure un volto”. Non le ha lasciato proprio nulla, se non un vuoto da colmare. E il bisogno insopprimibile di conoscere le proprie radici, che è di ogni essere umano. “Lasciare un bambino ai margini dell’album di famiglia rappresenta una desolazione, un tesoro abbandonato e divenuto inutile per sé, per la società”. Una collera sorda monta in lei, sale e subito si stempera di fronte a quel bambino che l’uomo è diventato. Perché “La pietà è un bastione efficace per la collera e il risentimento”.
Poche pagine, un centinaio, distillano un problema enorme. Infatti, “Cosa c’è di più terribile che non conoscere, non sapere chi sia il proprio padre?”
Gianrico e Giorgia Carofiglio,
L’ora del caffè,
Einaudi, Torino 2022,
p. 134, € 16,00
“Manuale di conversazione per generazioni incompatibili”, recita il sottotitolo di questo libro. Dove le due generazioni sono rappresentate da Gianrico Carofiglio – già magistrato, uomo politico ed affermato scrittore – e dalla figlia Giorgia. Il libro, però, non è un dibattito con le due voci a confronto (come si potrebbe pensare e come forse sarebbe stato più “utile” per comprendere i punti di vista delle due generazioni a confronto), ma il distillato, l’elaborato finale del ragionamento fra i due. Un punto d’arrivo, insomma, di cui non conosciamo gli antecedenti. Chiarito questo, il libro si legge con piacevolezza, grazie alla chiarezza espositiva dello scrittore e all’interesse dei temi, tutti attualissimi: dal vegetarianismo ai cambiamenti climatici, dalla parità di genere (con le famigerate “quote rosa”) all’essere gay.
Un’ultima notazione: spiace dirlo (e certo spiacerebbe a Carofiglio padre saperlo), ma il lettore tende inevitabilmente ad attribuire il pensiero di cui sta leggendo al padre e non alla figlia, che rimane molto sullo sfondo. Effetto inevitabile della notorietà paterna (e forse dello stereotipo maschio/femmina così ben trattato nel capitolo “Femminili plurali” sulla parità di genere). E allora torno al discorso di prima: conoscere lo svolgersi della discussione fra i due, i due punti di vista che trovano un punto di incontro, avrebbe messo gli autori su un piede di parità.