di Fiorella d’Arpino *
Il decreto del Tribunale per i Minorenni di Bologna che nell’ottobre scorso ha confermato la decisione del Giudice Tutelare di affidare una bimba ad una coppia omosessuale, ha suscitato un ampio dibattito sull’idoneità o meno dei gay di poter occuparsi di un bambino anche se solo temporaneamente.
Nel caso di specie, bisogna innanzitutto operare una distinzione per sgomberare il campo da equivoci. La normativa che regola l’istituto dell’affido contenuta nella L. 4 maggio 1983 n. 84, intitolata “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori così come modificata dalla L. 28 marzo 2001 n. 149” caratterizza l’istituto dell’affidamento distinguendolo dalla adozione, quindi coloro che si sono allarmati all’indomani della decisione dei Giudici di Bologna, gridando allo scandalo e ritenendo che in questo modo si aprirebbe la strada all’adozione per le coppie gay, cadono in errore. L’articolo 2 della citata legge consente di disporre l’affidamento di un minore “ad una famiglia preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno o, in via residuale, ad una comunità di tipo familiare”.
L’affidamento è un istituto temporaneo, a differenza dell’adozione che implica un nuovo “status” per il minore. L’affidamento ha come scopo il reinserimento del bambino nella famiglia di origine. Vi è quindi una differenza ontologica tra affidamento ed adozione che presuppone un definitivo stato di abbandono del minore ed è destinato a realizzare la completa recisione dei rapporti tra quest’ultimo e i genitori naturali. I giudici, tenendo conto della diversità dei presupposti e della finalità delle due ipotesi legislative, hanno ritenuto corretto applicare tout court all’affidamento consensuale le procedure previste per l’adozione, in primis quelle relative alle modalità di valutazione di idoneità e di comparazione delle coppie aspiranti all’adozione. Per questo motivo l’interpretazione della legge attualmente vigente impedisce al Giudice di considerare genitori adottivi soggetti adulti non costituenti una famiglia in senso giuridico; contra in materia di affido non possono essere esclusi come potenziali affidatari i singoli individui e quindi le coppie di fatto anche dello stesso sesso, purchè stabili e con caratteristiche tali da apparire idonee ad assicurare al minore il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno.
Nel caso di specie, il Servizio Sociale che aveva per primo previsto l’affidamento della bimba alla coppia omosessuale dinanzi al Giudice Tutelare aveva in concreto effettuato tutti gli accertamenti previsti, giungendo alla decisione che in quel caso la soluzione prospettata con il consenso della madre si rivelava la più idonea per la tutela degli interessi della bimba. Il Tribunale di Bologna, nell’esaminare il ricorso presentato contro la decisione dal Pubblico Ministero, consolida l’indirizzo già affermato dalla Corte di Cassazione che, nella sentenza n. 601 del 2013, aveva testualmente affermato: “Non sussistono certezze scientifiche e dati di esperienza, ma soltanto il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato ciò che invece è tutto da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino”. In effetti, gli studi effettuati non comportano sul piano scientifico la certezza che individui cresciuti ed educati da coppie omosessuali abbiano più problemi o presentino deficit cognitivi ed affettivi rispetto a persone educate da coppie genitori eterosessuali.
La pronuncia della Cassazione si riferiva al caso di un bambino affidato in via esclusiva ad una madre che aveva intrapreso una convivenza stabile con un’altra donna. Anche in questa ipotesi siamo in presenza di affermazioni di diritti individuali e addirittura la Corte di Cassazione ha ampiamente legittimato un affidamento monogenitoriale alla madre omosessuale, proprio considerando l’intolleranza e l’aggressività manifestata dall’altro genitore nei confronti delle scelte sentimentali e dell’orientamento sessuale dell’ex partner, motivo per cui si è ritenuto opportuno non applicare l’affido condiviso.
Nel decreto di Bologna ciò che appare interessante nella motivazione è che, nell’esaminare in concreto le condizioni della minore, si è rilevato che né il dettato normativo né l’interpretazione dei giudici impongono a pena di nullità il rispetto dell’ordine di preferenza delle soluzioni di affidamento indicate nell’art. 2 della L. n. 84/1983. La ratio dominante e lo scopo dell’istituto sono quelli di assicurare al minore un ambiente familiare idoneo dove possa tranquillamente svilupparsi la sua personalità. In casi particolari, l’ambito più idoneo può in concreto rivelarsi non quello costituito da un modello tradizionale ove coesistano la figura paterna, quella materna ed altri bambini, ma quello di una coppia senza figli che nel caso specifico può essere più funzionale alla realizzazione di un progetto volto ad evitare l’insorgere nel minore di una confusione di ruoli. I giudici di Bologna, così come il Servizio Sociale, hanno valutato che nel caso di specie, visti i lunghi periodi di assenza della figura paterna, che vive all’estero e incontra la figlia una volta l’anno, e considerato che la minore si era prevalentemente relazionata fino ad allora con figure familiari femminili, sia in comunità che nel nucleo familiare originario, fosse opportuno un suo inserimento in un contesto esclusivamente maschile del tutto dedicato a lei, se pur a tempo determinato. In parole povere, la scelta è stata effettuata nell’ottica di preservare il rapporto della bimba con il maschile, in assenza della presenza della figura paterna.
In seguito, nel monitorare la situazione, i risultati dell’affido si sono rivelati positivi e la scelta effettuata congrua e funzionale all’interesse della bambina, che continua a tenere ben chiara dentro di sé la differenza delle relazioni: la bimba chiama zii gli affidatari e questi ultimi sono consapevoli del proprio ruolo, non sostitutivo bensì di supporto alla genitorialità della madre, che frequenta regolarmente la loro casa assieme all’altra figlia – sorella della bimba – e si è sempre espressa in termini di apprezzamento nei confronti della situazione scelta.
Decisioni di questo tipo impongono una riflessione: quando si tratta di ricercare soluzioni più idonee a salvaguardare il minore, non bisogna lasciarsi condizionare dai pregiudizi. Le decisioni dei giudici a volte possono anche suscitare qualche perplessità, ma il giudice per primo non deve lasciarsi condizionare da alcun “tabù” nell’esercizio della sua funzione.
* avvocato. ISP Roma