Editore: FrancoAngeli, Milano
Anno: 2017
Prezzo: € 29
Pagine: 234
Bella e importante raccolta di saggi (peccato non essere stati informati al momento della pubblicazione) che spazia su innumerevoli versanti del padre e vede la luce una quindicina di anni dopo l’uscita del volume Il padre ritrovato (FrancoAngeli 2001), a cura di Maurizio Andolfi. Saggi prevalentemente clinici, nei quali emergono alcune costanti: padri “in retroguardia” (l’espressione è di Andolfi) “mentre le madri sono molto più attive e determinate a chiedere aiuto” (ma i padri sono “reattivi e motivati” se i figli presentano problemi molto gravi); padri coinvolti in un cambiamento evidente e profondo. Su quest’ultimo punto, tuttavia, la psicologa Grazia Attili rimane nella pattuglia degli scettici: parla di “ipotesi di cambiamento”, un cambiamento che “alcune volte sembra più un auspicio che basato su dati di realtà”, e ricorda con un certo sarcasmo che dal 1988 il tempo che i padri dedicano ai figli durante la giornata è aumentato “addirittura di 17 minuti!!!” (con ben tre punti esclamativi). Sembra di risentire le affermazioni della sociologa Marina Piazza quando, anni addietro, sosteneva che “non è cambiato il padre, ma la percezione del padre”.
E’ francamente sorprendente che Attili – stimato professore ordinario di Psicologia Sociale alla Sapienza di Roma – si rifaccia a Winnicott e Bowlby (manca Harlow con i suoi macachi rhesus) notoriamente criticati in anni successivi per aver completamente ignorato ruoli e funzioni paterne (ma Winnicott tornò successivamente sui suoi passi e rivide certe posizioni) e aver individuato nel padre esclusivamente una funzione “indiretta”, di sostegno, ovvero quella di “fornire il dovuto aiuto psicologico, materiale ed affettivo alla madre che si prende cura del piccolo in prima persona e che per questo non può essere stressata”.
Come se non fossero passati 50 anni dalle parole di Bowlby (e un’ottantina da quelle di Winnicott) con una gran mole di studi e ricerche sulla paternità, e come se il padre non avesse iniziato una “rivoluzione” tuttora in atto, Attili si situa pienamente nel solco dei due studiosi inglesi e dichiara che “l’importanza vera del padre nello sviluppo del bambino, quindi, non deriva dal suo saper fare il ‘mammo’, ma nel suo sapersi porre o come fattore di trasformazione dello schema che la moglie ha di se stessa, se la donna è insicura, o come colui che promuove e mantiene il senso di sé della moglie, ove questa è sicura, così che ne esca migliorata o rafforzata la qualità della relazione madre-figlio”. Insomma, gli uomini – geneticamente predisposti ad essere “inconsciamente disattenti verso i propri figli” per quella incertezza sulla propria genitorialità che è del loro essere maschi – possono però porsi come “fattori trasformativi cruciali della relazione madre-figlio”. Parafrasando un commento di Elisabeth Badinter ai compiti paterni assegnati da Bowlby, non è che al padre si chieda granché…
l tema dei padri gay (non era trattato nel libro di Andolfi edito 15 anni fa), è affrontato dallo psicologo e psicoterapeuta Federico Ferrari, secondo il quale vi sono ormai centinaia di pubblicazioni scientifiche socio-psicologiche sull’argomento ed esiste “un consenso pressoché unanime sul fatto che crescere con genitori omosessuali non comporti un pregiudizo per i figli”. Ferrari afferma che esistono solo 4 studi sociologici che mostrano svantaggi per i figli di genitori gay ma “tre di questi studi sono finanziati e condotti da istituzioni accademiche cristiane (…) e di tutti e quattro sono state a più riprese denunciate l’inconsistenza, la mancanza di validità interna e il pregiudizio di fondo”.
In più occasioni si è constatato che ricerche nate in ambito confessionale offrono inevitabilmente risultati di un certo tipo, rispondenti all’assunto originario dei ricercatori; ma d’altra parte avviene lo stesso con studi di impronta laica e, per così dire, di sinistra. Per questo chi scrive si astiene da tempo dal prendere posizione in un senso o nell’altro, poiché ritiene che gli studi in materia – e in particolar modo quelli pubblicati in Italia, dove l’argomento non è ancora metabolizzato culturalmente – siano tuttora viziati da preconcetti ideologici che ne minano l’attendibilità.
Il rapporto padri-figlie, ma più estesamente la genitorialità nei tempi odierni, è oggetto di trattazione da parte della psicoanalista Simona Argentieri, che da anni dedica particolare attenzione ai “nuovi padri” (ricordiamo il suo Il padre materno. Da San Giuseppe ai nuovi mammi, del 1999). In questo intervento, fra l’altro, Argentieri esamina gli innumerevoli meccanismi (“incastri nevrotici” li definisce) che si attivano in quella che lei considera “la più dolorosa e lacerante delle esperienze psichiche: la separazione”.
Impossibile citare tutti gli spunti per una riflessione sul padre, ognuno dei quali meriterebbe un cospicuo approfondimento. Come l’affermazione di Matteo Selvini secondo il quale “le capacità genitoriali non hanno sesso! Le distinzioni tra materno e paterno sono pericolosamente sessiste, discriminatorie nei confronti delle donne”. Frase, mi pare, dalla doppia lettura. Prima lettura: non c’è una “esclusività” nell’essere genitori ma una elasticità di ruoli. Ricordo a questo proposito il sociologo Lewis Yablonski, che negli anni Ottanta del secolo scorso auspicava “madri paterne” e “padri materni”. Seconda lettura: non c’è distinzione fra paterno e materno (distinzione alla quale Salvini si dice “allergico/insofferente”) e qui mi viene in mente la psicoanalista Alice Miller, che negli stessi anni teorizzava che “ogni bambino piccolo ha bisogno della compagnia di una persona (non ha importanza se si tratti del padre o della madre) che capisca i suoi sentimenti e non sia autoritario nei suoi confronti”. Personalmente, sono favorevole alla prima lettura, lo sono meno alla seconda che sembra annullare ogni differenza di genere (“può essere utile” – afferma in un altro saggio di questo libro Antonello D’Elia – “distinguere tra la dimensione genitoriale e di genere, tra padre e maschio”).
Da citare anche l’affermazione di Anna Mascellani, Vicedirettore dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, secondo la quale “la paternità nasce dall’estraneità, perché la paternità si può pensare, ma non si può vivere sul proprio corpo”. E ciò che è venuto meno ai giorni nostri non è tanto la presenza fisica del padre, “che non c’è mai stata” (verissimo!), quanto “la funzione simbolica del paterno”.
Interventi non meno significativi sono, fra gli altri, quello di Giacomo Grifoni, socio fondatore del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze (interessante “il canale della genitorialità come spinta motivazionale al cambiamento”: lo stesso canale – mi viene da osservare – che andrebbe attivato con i padri detenuti) o quello, drammaticamente attuale, di Papadopoulos e Gionakis sulla vulnerabilità e resilienza dei padri rifugiati.
Ma è con una riflessione di Mascellani che mi piace concludere: “Il padre, nelle famiglie attuali, è oggi quanto mai necessario e non solo sul piano delle responsabilità. La funzione paterna non è secondaria e supportiva della relazione principe ma è fondamentale nella costruzione di quel ‘campo relazionale unico’ che è la famiglia nucleare. Il padre non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino, ma è, assieme a loro, l’essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre”. Con buona pace del ruolo supportivo auspicato da Bowlby…