Editore: Einaudi, Torino
Anno: 2016
Prezzo: €18,50
Pagine: 199
La paternità, la montagna, l’amicizia. Sono i tre grandi temi di questo libro, vincitore del Premio Strega 2017. La paternità è quella che unisce Giovanni a suo figlio Pietro, voce narrante del libro. Uomo di poche parole, Giovanni (e a volte anche brusche) e di una tenerezza nascosta e difficile ad esprimersi: la montagna è l’unico, silenzioso tramite che conosce per avvicinare a sé il figlio. Così comincerà a condurre Pietro nel folto dei boschi, su per sentieri scabri, lungo ghiacciai che cambiano colore ad ogni ora e ad ogni profondità… “Cominciai a imparare il modo di andare in montagna di mio padre, la cosa più simile a una educazione che io abbia ricevuto da lui”. Questo non servirà, al momento, a rendere più facile la comprensione fra l’uomo e il suo bambino e terminerà con il “rifiuto” di Pietro sedicenne a seguire il padre in montagna: una ferita per il genitore, una “liberazione” per Pietro. Come spesso accade fra un genitore e un figlio, Pietro “scoprirà” poco a poco suo padre quando questi non ci sarà più (e la montagna sarà un lascito importantissimo) osservando in se stesso quell’amore per la natura che il genitore gli ha insegnato più con la scoperta che con le parole. Vivendo a Milano, Pietro comincerà col capire “la nostalgia della montagna, il male da cui per anni l’avevo visto afflitto senza capire”. Una Milano lontana dai suoi ricordi d’infanzia e che pure richiama al protagonista una natura tanto potente da non conoscere tempi e distanze: “un nuovo taglio di luce sul balcone, un germoglio nell’erba stenta tra le corsie di traffico, la primavera tornava perfino a Milano e la nostalgia si trasformava in attesa che arrivasse il momento di tornare su”.
E ogni volta che torna “su” Pietro ritrova Bruno, il bambino delle scorrerie dell’infanzia agli alpeggi, delle esplorazioni fra i ruderi delle vecchie baite abbandonate. Bruno che si è fatto uomo come lui e che assieme a lui vivrà ora avventure diverse e non meno significative, come la costruzione di una casa in alta montagna, attaccata a una roccia, su ruderi che Giovanni aveva individuato (sempre accompagnato da Bruno) e comprato, senza che il figlio lo sapesse. Lì Giovanni avrebbe voluto costruire un “rifugio” e lì Pietro e Bruno adempiranno il desiderio di Giovanni. E’ una delle tante scoperte postume che Pietro fa, come quando ripercorre i sentieri battuti dal padre da solo e nei “libri dei rifugi” ritrova le scarne frasi scritte dal genitore. E scopre “di aver avuto due padri: il primo era l’estraneo con cui avevo abitato per vent’anni in città, e tagliato i ponti per altri dieci; il secondo era il padre di montagna, quello che avevo intravisto eppure conosciuto meglio”.
Un padre, un amico, la montagna. La storia è in fondo semplice, semplice il linguaggio, semplici – perché essenziali – i sentimenti, pacato il ritmo della narrazione. Un libro che parla molto con i colori, con gli odori. E con i silenzi. C’è qualcosa di austero, di antico e malinconico – come può essere austera ed antica e malinconica la montagna – in tutta la narrazione. Forse è proprio questa semplicità, questa pacatezza, che ha fatto storcere il naso a qualche lettore, che su Internet ha giudicato l’opera “sopravvalutata”. Il fatto è che oggi, nella prosa come nel cinema, siamo drogati dagli effetti speciali, dai colpi di scena, dalle emozioni forti come pugni nello stomaco. E una bella, semplice storia finisce quasi col deluderci.