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Saraceno, Chiara


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Titolo: Mamme e papà
Editore: il Mulino, Bologna
Anno: 2016
Prezzo: €13
Pagine: 147

Molti aspetti dell’essere padre e madre sono esaminati in questo libro della sociologa Chiara Saraceno. Gravidanza e parto sono visti nel duplice aspetto della medicalizzazione, con la tendenza ad affidarsi pienamente al sapere tecnico-scientifico, e del movimento di “ritorno alla natura” che comprende l’esibizione compiaciuta del corpo in gravidanza, il parto “naturale”, il rifiuto di ogni tecnica di procreazione assistita, l’allattamento al seno, fino al co-sleeping (dormire assieme, genitori e figli piccoli, nello stesso letto). Entrambe le posizioni suonano eccessive, ma l’Autrice appare più critica verso la “svolta naturalistica”, che – sostiene – “scambia ‘tradizione’ con ‘natura’”.

Saraceno affronta poi la figura materna nelle sue odierne accezioni: “madre coccodrillo” (disposta a sacrificare se stessa pur di spianare la strada ai propri pargoli, impedendo così la loro autonomia), “madre narciso” (troppo presa da se stessa per occuparsi realmente della prole), “madre elicottero” (quella che controlla – grazie anche ai moderni apparati tecnologici – figli preadolescenti e adolescenti), fino alla “mamma tigre”, fautrice di una severissima educazione per ottenere il massimo delle prestazioni dai figli (il modello della cinese Amy Chua, ricordate?).

E i padri? Buona parte delle pagine sui padri è occupata da una polemica – garbata, per carità – con il giornalista Antonio Polito, autore del libro Contro i papà, ritenuto colpevole di imputare ai padri, troppo “fratelli” e poco “padri”, il fenomeno molto italiano dei “bamboccioni”. Per Saraceno non è colpa dello scarso antagonismo padre-figli, ossia della mancanza del conflitto generazionale, se oggi i giovani escono così tardi dalle accoglienti mura domestiche. La colpa è soprattutto di una “organizzazione del mercato del lavoro, del mercato dell’abitazione, dello stesso welfare, che scoraggia quando non impedisce l’autonomia”.

Probabilmente, due interpretazioni ugualmente unilaterali: condizioni difficili – lavorative e abitative – e welfare poco accogliente da un lato e rapporti “orizzontali” e non più “verticali” dall’altro (con i padri allineati alle madri – ed è una novità storica – nel trattenere i figli a casa) sono egualmente responsabili della prolungata permanenza in famiglia. Qua e là Saraceno esprime il suo disaccordo anche con lo psicoanalista Massimo Recalcati, autore di Cosa resta del padre e Il complesso di Telemaco, poiché, “come gran parte della psicoanalisi”, continua ad assegnare le responsabilità dell’educazione esclusivamente alle madri e perchè riprende “il suo maestro Lacan senza alcun cruccio di contestualizzazione storica e sociale”.

Giusta osservazione, condita di riflessioni, quella del frequente interrogativo se un bambino in età prescolare soffra se sua madre lavora. Domanda tendenziosa, osserva Saraceno, che pone la questione del benessere dei bambini “esclusivamente in relazione al tempo e alla presenza della madre”. “Il lavoro paterno” – aggiunge – “sembra non porre problemi per il benessere psicofisico dei bambini piccoli perché le cure e il tempo paterni non sono pensati come indispensabili allo stesso modo di quelli materni”. Dietro questo pregiudizio c’è anche (a nostro avviso sempre meno) la convinzione di una sostanziale incapacità paterna all’accudimento. “Eppure” – osserva Saraceno – “se ci si guarda in giro, di padri competenti anche nell’accudimento e nella relazione quotidiana ce ne sono parecchi”.

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