di Maurizio Quilici *
Ci risiamo. Si torna a parlare della questione del cognome materno. Da aggiungere o sostituire a quello del padre. Questa volta lo spunto viene dalla Corte Europea dei Diritti Umani, decima sezione, che con la sentenza 77/07 ha condannato l’Italia perché non consente ai genitori di dare ai figli il solo cognome della madre, ledendo così il diritto di non discriminazione tra i coniugi e il rispetto della vita familiare e privata, sanciti dalla Convenzione europea dei dirtti dell’uomo.La questione era stata posta da due coniugi milanesi ai quali era stato impedito di registrare all’anagrafe la figlia con il solo cognome materno.Come è noto, nel 2000 fu introdotta in Italia la possibilità di aggiungere il cognome della madre a quello paterno; tuttavia questo – secondo i giudici di Strasburgo – non è sufficiente a garantire la parità dei diritti fra i genitori.
La Corte Europea, nel motivare la decisione, ammette che la regola del patronimico “può rivelarsi necessaria nella pratica” e che ciò “non costituisce necessariamente uina violazione della Convenzione europea dei diritti umani”. Quello che ritiene censurabile è l’inesistenza di una possibile deroga, per cui la regola appare “eccessivamente rigida e discriminatoria verso le donne”. In altre parole, i giudici di Strasburgo ci hanno detto: se volete lasciare la regola generale del patronimico, fate pure, purché questa non sia obbligatoria: i genitori devono poter scegliere liberamente tra cognome paterno e materno (o scegliere entrambi).
Delle numerose, immediate reazioni, tutte quelle che ho letto o ascoltato erano a favore della pronuncia europea. Ed avevano tutte una firma femminile, ad eccezione del commento di Gian Ettore Gassani, presidente dell’AMI (Associazione Matrimonialisti Italiani). Ritengo che ciò non sia significativo e che non si debba iscrivere anche questo dibattito in una eterna “guerra dei sessi”. Da notare, però, che Gassani, parla in questa occasione di “imposizione paternalistica di una legge superata dalla storia e dalle Convenzioni internazionali”, ma spesso si è espresso a favore e a tutela di valori paterni. Non ricordo invece che qualcuna delle autorevoli voci femminili che si sono levate a sostegno della sentenza europea abbia mai speso una parola per contrastare una discriminazione a danno del padre. Eppure – come è inevitabile nella faticosa strada verso una reale eguaglianza tra uomo e donna – anche queste non mancano.
Esempio lampante, la Legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza, la quale consente che il padre del nascituro sia informato (non coinvolto nella decisione, si badi) solo ed esclusivamente “ove la madre lo consenta”.
Subito dopo la strigliata della Corte il Consiglio dei Ministri ha approvato in fretta e furia un disegno di legge in materia (abbastanza penoso che per anni giacciano in Parlamento proposte di legge sul cognome e poi si debba aspettare il richiamo europeo per trovare una inusuale rapidità) il quale prevede che il figlio “assuma il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori (…) quello della madre o quello di entrambi i genitori”.
Secondo la sociologa Chiara Saraceno, questa formulazione “ancora una volta privilegia il cognome paterno, che verrebbe attribuito di default”. Non si può darle torto, eppure in quante occasioni c’è un privilegio materno attribuito per default? Chi conosce il meccanismo delle separazioni sa bene che la madre è buona madre per default, appunto, e che il padre deve invece impegnarsi molto per dimostrare di essere un buon padre. E, poi, come coniugare la parità dei diritti dei genitori in caso di disaccordo? Ricorrendo al giudice, come suggerisce qualcuno, e dunque con una intromissione ulteriore della legge nel privato? Povero Carlo Arturo Jemolo, che più di 60 anni fa, con un’immagine citatissima, definì la famiglia “un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto”.
Michela Marzano, sociologa, parla di “concezioni arcaiche dei rapporti di coppia”, di “visione patriarcale delle famiglie” e ritiene che l’unico motivo per il quale si perpetua la trasmissione del cognome paterno sia “l’abitudine”.
E’ una vecchia storia, quella del cognome, che coincide con la nascita dell’ISP. Fu infatti nel 1988 che la Corte Costituzionale stabilì che il Parlamento doveva riformare la legislazione vigente e attribuire agli Italiani un doppio cognome. L’ISP se ne occupò per la prima
volta nel 1996 (faceva allora parte dell’Osservatorio permenente sulla famiglia) per contestare duramente la proposta di legge depositata dall’on. Giuliano Pisapia, allora Presidente della commissione Giustizia della Camera ed oggi sindaco di Milano, che proponeva di sostituire il cognome paterno con quello della madre, per “riconoscere, anche a livello legislativo, il rapporto particolare, diverso rispetto al padre che ha la madre con il figlio sia durante la maternità che dopo, specialmente nei primi anni di vita”. In seguito si sono succedute numerose iniziative parlamentari e di Governo sul cognome, tutte finite nel dimenticatoio.
L’ultimo intervento in materia era stato quello della Cassazione, che nel 2008, chiamata in causa dagli stessi coniugi milanesi che hanno ottenuto la sentenza del Parlamento Europeo, richiamò il Parlamento alle sue funzioni legislative, osservando che il solo cognome paterno costituiva una discriminazione e contrastava con il Trattato di Lisbona del 2007 firmato anche dall’Italia.
Non è un nodo semplice da sciogliere. E non solo per le difficoltà burocratiche e anagrafiche (potrebbe darsi il caso di fratelli con cognomi diversi, per non parlare – nel caso si scegliessero entrambi i cognomi – della ovvia necessità di farne “cadere” uno al momento del matrimonio).
Questi aspetti possono essere risolti in vari modi, nessuno tuttavia indolore. Si può, per esempio stabilire per legge il doppio cognome (che mi pare il criterio di maggiore equità) e lasciare che sia il figlio, al compimento del diciottesimo anno, a decidere quale cognome mantenere. Ma certo questo criterio non favorisce l’armonia di una coppia di genitori. E nemmeno quella fra genitore “cancellato” anagraficamente e il figlio. Come osservava nel 1996 lo psicoanalista Massimo Ammaniti, sarebbe forse una responsabilità troppo
grande per le spalle del figlio.
Tuttavia non è tanto questo l’aspetto che mi lascia perplesso. E’ il fatto che da un migliaio di anni, anno più anno meno, il cognome paterno “segna”la certezza di quella paternità. La madre partorisce e questo è lo stigma – ben più significativo e indiscutibile – della origine della prole, della sua “appartenenza” alla madre, della certezza della sua origine; il padre dà il suo cognome, sottolineando con ciò l’aspetto culturale e sociale della paternità a fronte di quello biologico e fisico della madre. Quella è la sua certezza, la sua eredità.
Riconoscere ai figli anche il cognome materno mi sembra giusto. Togliere loro il cognome del padre – pur con decisione comune dei genitori – oltre a sovvertire un archetipo paterno (e operazioni simili hanno sempre esiti imprevedibili) darà l’ultima spallata ad una paternità già abbondantemente “evanescente”, “svaporata” – termini usati da psicoanalisti – svilita, delegittimata. Una paternità boccheggiante che certo non avrebbe bisogno di perdere quest’ultimo connotato.
* presidente dell’ISP