di Emilio Castaldi *
L’uomo vive l’esperienza della nascita di un figlio da un punto di vista mentale, e spesso non gli è facile esprimere i vissuti emotivi caratteristici di questa fase della vita. La Couvade (termine con il quale si indicano quei riti attraverso i quali il maschio partecipa, e in qualche modo si identifica, con la gravidanza) mostra invece come sia possibile da parte dell’uomo vivere la gravidanza in un modo profondo e partecipativo anche dal punto di vista somatico, in linea con il nuovo profilo della paternità di oggi.
Di seguito verranno prese in esame le antiche radici che legavano l’uomo all’evento parto da un punto di vista fisico, non verbale e non detto. Le fonti di riferimento per la trattazione seguono un percorso antropologico ancora poco investigato: rimane da capire se questo mancato interesse è dipendente in qualche modo dalla natura complessa e sfuggente del tema, ancora poco conosciuto, o rientra comunque nello scarso filone di studi che ancora coinvolge tutta la paternità in generale. A prescindere da queste riflessioni, la couvade rimane comunque un approfondimento interessante sul tema della partecipazione paterna alla gravidanza, mostrandone aspetti esclusivi del sentire paterno.
Com’è noto, durante la gravidanza possono affiorare nell’uomo particolari vissuti: un’invidia verso la compagna per esempio, sia nel poter sentire il figlio in una forma esclusiva, sia nella possibilità di partorire e allattare, percepiti come momenti unici e profondi, il cui limite invalicabile è rappresentato, com’è evidente, dai fattori biologici. C’è nell’uomo, quindi, una sorta di invidia e gelosia nei confronti della partner, che esula dal rapporto di coppia e rimanda al “difetto biologico”. Proprio per “prevenire” questa gelosia e far partecipare i padri alla gravidanza e alla nascita del proprio figlio più attivamente, alcune culture tradizionali in diverse parti del mondo (dal Sud America all’India) hanno sviluppato nel passato diverse pratiche atte ad aiutare il futuro padre e ad approfondire la sua identificazione con la gravidanza, facendolo in tal modo partecipare e sentirsi parte integrante di essa. Queste pratiche sono note appunto con il nome di riti della couvade.
La parola couvade deriva dal francese couver e significa “incubare, far nascere, covare”: indica appunto l’attrazione dell’uomo verso il nascituro e rappresenta uno dei costumi più remoti e diffusi tra le popolazioni della terra, descritto in diversi resoconti dagli scrittori dell’età classica fino agli antropologi del nostro secolo.
Per tradizione durante la gravidanza agli uomini era vietato tagliare, uccidere o mangiare determinati cibi, cacciare, fumare e sollevare oggetti pesanti o toccare utensili appuntiti (couvade dietetica), in quanto si riteneva che il padre fosse unito al bambino da un intimo legame di simpatia fisica, ovvero di condivisione, tanto che tutti i suoi atti potessero influire sul bambino, favorendolo o danneggiandolo.
In altri casi, nel periodo in cui la donna attraversava il momento culminante della gestazione, l’uomo si chiudeva in una capanna, indossava gli abiti della compagna e fingeva le doglie, imitandone suoni e movimenti, per favorire in qualche modo la partner e renderle più sopportabili i dolori delle doglie (couvade pseudo-materna). Altrettanto diffusa era l’usanza per cui, dopo il travaglio e la nascita di un bambino, era il padre anziché la madre a sdraiarsi per diverse settimane sull’amaca, astenendosi da ogni attività, e godendo dell’assistenza e dell’interesse riservata alla partoriente, comprese quelle visite del gruppo che durante la gravidanza erano state destinate solamente alla madre (Lo Russo, 1995).
In generale, quindi, con rito della couvade ci si riferisce ad una serie di rituali che nelle società tribali riassorbivano in maniera indolore i possibili disagi legati al passaggio di stato verso la paternità. Seppure le sue manifestazioni siano molto diverse, questi rituali appaiono simbolici nel tentativo di concedere alcuni “privilegi” ai futuri papà e sembrano svelare il profondo coinvolgimento dell’uomo in un processo che biologicamente potrebbe escluderlo, ma che socialmente lo vede protagonista. Il meccanismo alla base, come detto, è una sorta d’identificazione con la madre e il bambino, per entrare in sintonia con la diade e contribuire al loro benessere: il rito della couvade è estremamente significativo di tale processo di identificazione (Del Lungo, Pontalti, 1986).
I rituali della couvade possono essere letti su due fronti: un punto di vista è offerto dalle spiegazioni o credenze che attingono al bacino culturale di chi pratica tale rito. Per esempio secondo una di queste, il rituale serve per indurre gli spiriti maligni a seguire il futuro papà in modo che madre e figlio possano rimanere illesi: quasi tutte le spiegazioni puntano sulla possibilità di attivarsi del padre, in funzione del buon esito del parto e della salute del figlio, risvegliando nell’uomo il senso della cura dei figli (Lo Russo, 1995).
L’altro livello consiste invece nel rintracciare il profondo significato simbolico e psicologico sottostante al rito. I rituali, infatti, potrebbero servire a sottolineare l’importanza del ruolo maschile nella gravidanza o ancora il conferimento ai futuri padri di uno status speciale proprio nel momento in cui potrebbero sentirsi come in secondo piano, soli o confusi.
Il significato di questo costume sembrerebbe sintetizzarsi nell’esigenza del padre di rivestire un ruolo paritetico o concorrenziale a quello materno, un’opportunità per avvicinarsi al processo creativo e partecipare più attivamente alla gravidanza e alla nascita del figlio. Esso viene considerato una sorta di psicodramma estremamente significativo del desiderio e della volontà del padre di coinvolgersi anche fisicamente nella vita del bambino; rappresenta l’espressione più pregnante e significativa del “fingersi madre” dell’uomo, nella volontà di affermazione della paternità come ricerca di simmetria e di assunzione delle caratteristiche materne (Lo Russo, 1995).
La couvade è indicata quindi come “uno degli atti rituali creativi” (Malinowski, 1961) della struttura familiare in quanto la sua funzione è quella di creare il padre. La paternità, seguendo questa logica, non è un dato naturale, non esiste dall’origine come la maternità, ma si costruisce sul modello di questa, per mimesi ed estensione al padre di prerogative materne, e risulta dunque frutto di una costruzione sociale.
Bisogna pertanto inventare una paternità simbolica e sociale, costruita sul modello della maternità, che imiti le caratteristiche materne attraverso l’assunzione maschile di ruoli e funzioni femminili. Risulta chiaro il parallelismo che si può operare confrontando quanto detto con la nuova realtà dei padri di oggi, in assenza di un modello attuale di riferimento paterno.
* psicologo. Padova