di Cristiano Camera *
Cosa conta di più: la felicità dei figli o la loro affermazione nella società? Si può sacrificare alla carriera – anche a quella scolastica – di un bambino e di un futuro adulto, ogni minimo divertimento, qualsiasi minuscola distrazione, un’eventuale piccola gioia extra-curriculare? L’inizio dell’anno si è aperto negli Usa con un acceso dibattito attorno a questi temi e sul tipo giusto di educazione da impartire ai ragazzi. Ad accendere la miccia, le dichiarazioni di un’insegnante di Yale, la sino-americana Amy Chua, la quale sul Wall Street Journal ha candidamente raccontato, in un saggio intitolato Perché le madri cinesi sono superiori – estratto dal suo libro appena pubblicato Inno di battaglia della madre tigre -, i metodi da lei utilizzati per fare eccellere i figli nelle varie discipline scolastiche, nonché nel pianoforte e nel violino: un sistema educativo crudele, dove sono ammesse perfino punizioni, insulti e deprivazioni pur di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Il modo di formare i fanciulli, ispirato dalla cultura confuciana e proposto dalla Chua, professoressa di Diritto internazionale, fa inorridire il mondo occidentale. Il quale, invece, dal ’68 in poi, nel campo dell’educazione dei giovani è stato molto più politicamente corretto rispetto al sistema asiatico: ha ammesso gli errori, ha assecondato le inclinazioni e le aspirazioni dei ragazzi, si è mostrato disponibile a incoraggiarli con dolcezza e ad accompagnarli su sentieri nuovi, se quelli intrapresi per primi fossero risultati essere troppo tortuosi. Soprattutto, i genitori euro-americani sono stati particolarmente attenti alla salvaguardia dell’autostima dei figli: un bene prezioso, da maneggiare con cura e che nessun genitore si sognerebbe di mettere a repentaglio con critiche pesanti.
Ma tornando al dibattito, fa bene la Chua a essere così severa con i figli o hanno ragione i genitori occidentali a essere morbidi e permissivi con i propri ragazzi? Stando ai risultati concreti, il metodo imposto dalla “tigre” cinese, ossia, in una parola, la coercizione, porta effettivamente ad eccellere. Non invitare o andare dagli amici a giocare, non dormire fuori casa, non guardare la tv o giocare con i videogiochi al computer, non lasciare ai figli la scelta delle attività extra-scolastiche, pretendere, sempre, il massimo dei voti sono soltanto delle regolette e, per giunta, tenere se paragonate alle torture inflitte dalla signora Chua alle figlie Sophia e Louisa. A quest’ultima, ad esempio, quando aveva sette anni, la madre riuscì a fare suonare al pianoforte un pezzo estremamente complicato per una bambina di quell’età, nascondendole, al termine una settimana di infruttuose esercitazioni, i suoi giochi preferiti e minacciandola di donarli in beneficenza se non fosse stata in grado di eseguire la composizione per il giorno dopo e di farle saltare pranzo e cena, di non farle mai più regali di compleanno, né di Natale, chiamandola indolente, vile, scavezzacollo, patetica, spazzatura, impedendole perfino di bere e di andare in bagno. “Finché” – racconta con manifesta soddisfazione l’aguzzina – “Lulu riuscì a suonare il pezzo, rimanendone talmente contenta e soddisfatta da non voler più smettere”.
Ora, al di là della disapprovazione che nella nostra mentalità può suscitare un sistema educativo da campo di concentramento, c’è da chiedersi se stia nel successo nella musica o in quello scolastico il segreto della felicità e, soprattutto, se sia giusto imporre ai figli di seguire una strada scelta dai genitori. E poi, siamo davvero certi che il metodo cinese, che evidentemente funziona nella risoluzione di quiz e test matematici, non costituisca invece un danno rispetto all’appagamento di ciò che un giovane desidera diventare e riguardo alle sue legittime aspirazioni e vocazioni? Non è un tale sistema educativo un’amputazione della personalità dei giovani, un modo di tarpare le ali alla creatività e alla socialità dei ragazzi? Infine, così facendo non si rischierà di creare una mera ripetizione di gesti seppure perfetti, come nell’esecuzione senza errori di uno spartito musicale, ma nessuna vera novità, come un’inedita e originale composizione, nessun vero progresso, nessuna vera rivoluzione?
Eppure, fra i lettori del saggio della Chua, affianco a chi ha definito l’autrice una sadica, negli Usa sono spuntati anche ammiratori nostalgici di un’epoca in cui “anche le mamme ebree si comportavano così” o semplicemente dei pragmatici sostenitori del metodo cinese. I quali, criticando l’eccessivo permissivismo della nostra cultura, si sono detti ammirati dei progressi in campo scientifico, tecnologico ed economico della società cinese, dovuti evidentemente a un’educazione basata sul rigore e sulla severità.
Se infatti, secondo l’Ocse, è un dato di fatto che gli studenti americani siano risultati gli ultimi – nella classifica del recente Programme for International Student Assesment – nell’apprendimento della matematica al liceo e in tutte le discipline più importanti e che primi si siano piazzati invece gli alunni di Shanghai (peraltro ammessi al Programma per la prima volta), la verità è che l’America sta vivendo con grande angoscia soprattutto il sorpasso economico della Cina e si sta dunque chiedendo cosa sia andato storto, dove abbia sbagliato e se non sia il caso di ripartire proprio dall’educazione dei giovani. E allora è ovvio che prendano sempre più piede, soprattutto fra i conservatori, le teorie di fautori di un ritorno alla disciplina ferrea e allo spirito di sacrificio, all’autorità parentale e alla gerarchia aziendal-militare, all’intransigenza e al rigore. Il tutto in barba a preoccupazioni di possibili danni alla psiche, di temute nevrosi freudiane da mancanza di autostima, perché quel che è in gioco è il primato economico di una fetta di mondo, prima ancora di una mentalità di tipo asiatico od occidentale, a questo punto interscambiabili e da poter prendere all’occorrenza in prestito.
Non importa più, insomma, che il genio creativo sia anzitutto un ribelle, un destabilizzatore dello status quo, un rivoluzionario, un anticonformista, uno che dà un calcio alla realtà esistente per inventarne una del tutto nuova. Ciò che conta ormai è che i figli siano in grado di superare test d’ammissione, quiz ed esami, e che imparino il metodo per farlo sin dalla nascita. Lo dimostra il fatto che alcune mamme dell’alta borghesia americana fanno della competitività la parola d’ordine in famiglia fin dai primi guaiti dei loro bebè, lottando come tigri, appunto, pur di fare ammettere i figli, già in tenera età, ai nidi più esclusivi delle loro città.
* Giornalista, fondatore del blog www.figliopadre.com