Mentre il mondo cambia, i pilastri della nostra cultura si sgretolano e noi non siamo capaci di assimilare i nuovi costumi con la velocità che la società moderna esige. Lasciamo inevitabilmente il vecchio alle nostre spalle, ma ciò avviene prima
che abbiamo avuto modo di assimilare nuovi contenuti, nuovi strumenti di funzionamento sociale. Così, senza nemmeno accorgercene, ci ritroviamo senza più socialità, ovvero senza più una società.
In maniera quasi impercettibile questo processo di destrutturazione del nostro sistema sociale è iniziato con la contestazione della famiglia allargata; un organismo troppo macroscopico e arcaico per consentire la dinamicità necessaria all’evoluzione tecnologica.
Liberarsi di questa zavorra era forse un passaggio inevitabile. Forse però eravamo impreparati a tanta dinamicità e così, con la zavorra, abbiamo perso anche i freni. La famiglia allargata ha lasciato il posto al più sfrenato individualismo e – di passo in passo – dalla famiglia nucleare arriviamo a quella mono-nucleare: un solo genitore alla volta per i figli!
Condividere la quotidianità con un “altro” comporta inevitabilmente una parziale frustrazione dei bisogni individuali, pertanto “l’altro” è un nemico che ruba spazio alla nostra libertà, che ci rallenta e che intralcia la realizzazione dei nostri
(personalissimi) progetti. In una famiglia mononucleare l’unico “altro” rimasto è “l’altro genitore”.
Quanto dolore nel ritrovarsi soli in mezzo alla gente, quanta paura fa muoversi nella società senza più un abito sociale: single? separata\o? ragazza\o madre-padre? Per noi che proveniamo da una cultura millenaria fondata sulla famiglia,
per noi che abbiamo la “Santa Sede” al centro del nostro paese, tutto questo rappresenta una crisi di identità talmente profonda – sia a livello individuale che a livello sociale – che non possiamo, certo, aspirare a maneggiarla con la stessa agilità
dei nostri vicini scandinavi. Il dolore senza soluzione diventa rabbia, senza alcun oggetto contro cui sfogarla se non chi ci è più prossimo; chi meglio dell’ex coniuge che rappresenta ormai una spina nel cuore più che un conforto?
Tutta la società europea fa fatica a collocare, accogliere e sostenere le famiglie separate. Così ognuno cerca di cavarsela come può: ricercando le risorse laddove le può pretendere, dall’ex coniuge; facendo la guerra a chi si trova lì accanto, l’ex
coniuge!
Incidentalmente però, per i figli, l’ex coniuge è uno dei due genitori: una risorsa affettiva fondante per il loro sviluppo come individui, nonché come membri della società. Purtroppo nella famiglia mononucleare in crisi, quando si scatena il dolore senza soluzione, la rabbia senza oggetto e il conflitto fra i coniugi-genitori, i figli sono costretti a schierarsi per non essere travolti. Spesso accade che i figli siano costretti a rinunciare a uno dei due genitori (ultime risorse affettive che la cultura moderna aveva ancora concesso) per non rischiare di perderli entrambi. Così sono costretti a crescere come se avessero una gamba sola. Nel frattempo il genitore alienato perde, oltre alla propria identità e collocazione sociale, anche quelle affettiva e relazionale.
Si noti che, volutamente, in questo articolo si parla genericamente di “genitore” piuttosto che di padre o di madre. Questo in quanto il fenomeno di alienazione parentale investe entrambe le figure parentali, seppure ancora con una prevalenza
di padri alienati rispetto alle madri. Le conseguenze sui figli e sui genitori, seppure differenti di caso in caso, sono sempre e comunque gravi e tendono a trasmettersi da una generazione all’altra, con un impatto sociale che non è più trascurabile.
In una sorta di circolo vizioso, la trasformazione culturale provoca la trasformazione familiare, questa diviene patologia (sofferenza) individuale senza cura e, infine, patologia sociale senza cura. I figli crescono disabili in una società che è essa stessa in piena crisi di identità.
In tutto questo percorso possiamo facilmente individuare quelle che sono le caratteristiche distintive del fenomeno; quei criteri che, nelle patologie mediche, vengono classificati come “sindromi”.
Si noti che, volutamente, in questo articolo si è discorso di individui e di società, di dolore e rabbia, di famiglia allargata e famiglia mononucleare, di genitori alienati e di figli schierati; non si è parlato di “sindromi” e men che mai di PAS.
In effetti, mentre il fenomeno appena descritto (di alienazione parentale, ovvero di sindrome della) assume una sempre maggiore rilevanza sociale, molti degli operatori nel settore, forse per interesse o forse per mascherare a se stessi e al
mondo il loro stato di impotenza, o forse semplicemente perché sono essi stessi europei (figli della terra culla di studi filosofici, nati nei pressi della Santa Sede…) si dedicano ai sofismi – se si possa o meno parlare di sindrome, se sia o meno corretta la definizione di alienazione parentale – piuttosto che occuparsi di approfondire le origini del fenomeno (quale che sia il nome che vogliamo dargli) che sempre più spesso si palesa davanti agli occhi di chi si muove nell’ambito delle separazioni (magistrati, avvocati, CTU, assistenti sociali, psicoterapeuti, mediatori familiari … ho dimenticato certo qualcuno, non per sgarbo ma per eccedenza di superspecializzazioni).
Se ci dilettiamo a cambiare il nome ai fatti, non abbiamo contribuito né ad approfondirne la conoscenza né tantomeno a maneggiare meglio il fatto stesso. Se definiamo una persona disabile o diversamente abile, non abbiamo contribuito
a modificare la sua condizione di vita.
La patologia (sofferenza) continua a circolare dalla società all’individuo e da questo alla società. Mentre la malattia fa il suo corso gli esimi dottori di Pinocchio disquisiscono fra loro per stabilire se la malattia esista oppure no e, nel caso in
cui esista, come la si possa più appropriatamente definire …
di Adriana Mazzucchelli
(Psicoterapeuta. CTU Tribunale Tivoli (RM))