Pubblicato di recente (luglio 2013), il Rapporto EURES – ANSA sull’omicidio volontario in Italia fa emergere dati inquietanti sui delitti di genere, il cosiddetto “femminicidio”, neologismo di origine inglese già usato nel XIX secolo, poi più
volte ripreso da criminologi, sociologi, giuristi, antropologi per indicare la violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna “in quanto donna”, secondo la definizione dell’antropologa messicana Marcela Lagarde.
Il fenomeno è tristemente esteso in tutto il mondo. Per limitarci all’Europa, nel 2009 in Germania sono state uccise 350 donne (50% degli omicidi totali) in Francia 288 (34,3% degli omicidi totali), nel Regno Unito 245 (33,9% degli omicidi
totali). In Italia, tra il 2002 ed il 2012 sono state uccise 2200 donne, in media 171 all’anno, una ogni due giorni. Nei primi sei mesi del 2013 sono state uccise 81 donne, di cui il 75% nel contesto familiare o affettivo, e nel 61,1% dei casi di eta’ compresa tra i 25 e i 54 anni. Fenomeno prevalente nelle regioni settentrionali (49,9%), con una preminente specificità lombarda (17,2%). Nel 66,3% dei casi l’omicida è il partner, il coniuge o un ex partner, spesso in concomitanza con la fine di un rapporto sentimentale (47,2%) nei primi tre mesi di separazione, dato che scende man mano che passa il tempo, pur mantenendosi su percentuali di rilievo.
Si diceva che le donne più colpite sono tra i 25 e i 54 anni, ma vorrei attirare l’attenzione in particolare sulle donne di età compresa tra i 25 e i 44 anni: il 35,8%, vale a dire donne già madri o in procinto di esserlo, e comunque più facilmente
di bambini e ragazzi minorenni. E qui si introduce il nocciolo della questione: la presenza dei figli, che sono le vittime innocenti di tragedie familiari, tanto più gravi quando si tratta di bambini. La loro è una condizione al limite della follia umana e sociale: spesso testimoni dell’omicidio della madre, altrettanto spesso assistono anche al suicidio o al tentato suicidio del padre. Quasi sempre il padre è arrestato e condannato, con conseguente perdita della patria potestà. Di questi bambini nessuno si preoccupa: terminato il clamore dell’attualità, che comunque si occupa solo dell’evento delittuoso, e quindi riguarda la coppia e le sue interrelazioni – al massimo un aggiornamento del fenomeno “femminicidio” – è rarissimo che sui mezzi di comunicazione si faccia riferimento alla loro vita futura. Per lo più, si ignora anche quanti siano questi bambini e ragazzi. Solo di recente Anna Costanza Baldry (docente di Psicologia all’Università II di Napoli, consulente dell’Onu, della Nato e dell’Ocse in materia di violenza contro le donne e i bambini) ha portato a termine una ricerca, prendendo in esame la condizione di bambini figli di donne vittime di femminicidio, tra il 2000 e il 2013 in Italia: sono oltre 1500.
Qual è la sorte di questi bambini già così duramente provati? Chi si occupa di loro? Chi provvederà alla loro crescita, alla loro educazione, chi potrà aiutarli ad affrontare e ad elaborare il lutto? Le autorità competenti a trattare questi casi sono
i Tribunali per i minorenni. Nella maggioranza dei casi, i minorenni sono affidati ai parenti più prossimi, quasi sempre i nonni, in prevalenza materni, ma dipende da caso a caso. I nonni materni, infatti, sono anche i genitori che hanno perso una figlia in modo drammatico e non sempre, comprensibilmente, sono nelle condizioni di poter garantire una linea educativa tale da evitare ogni forma di alienazione genitoriale verso il padre del bambino, benché colpevole di un atroce delitto, ma pur sempre padre. Altre volte i nonni non riescono a offrire un sostegno psicologico per l’elaborazione del lutto e hanno grandi difficoltà a sostenere un vero e proprio processo di resilienza nei bambini.
Altro problema di non poco conto è quello economico: i bambini si trovano del tutto privi di ogni supporto economico che prima del delitto era assicurato dai redditi dei due genitori: alla loro morte o, quanto meno, alla detenzione del padre, questi bambini perdono ogni sostegno per la loro crescita. Spesso, troppo spesso l’affido ai nonni comporta la condivisione di una condizione economica fragile, talora al limite della povertà.
Per questi ragazzi non esistono protocolli, percorsi, strumenti che consentano di offrire loro una vita migliore. Soltanto la Regione Basilicata e la Regione Lazio hanno avviato un iter legislativo per la concessione di un sostegno economico
specifico per bambini che vivono questo dramma. Decisioni encomiabili, ma che risentono delle lentezze burocratiche ed amministrative per la loro realizzazione. A livello nazionale, non esiste alcun provvedimento in merito: manca un intervento organico sul problema.
L’altra soluzione individuata dai Tribunali per i minorenni è l’affido preadottivo e poi l’adozione da parte di famiglie disponibili ad accogliere bambini decisamente problematici. Ma la decisione è rimessa alla discrezionalità dei giudici. Certamente è una soluzione che mira a dare un equilibrio familiare ai bambini, ma è altresì un ulteriore “taglio” che viene inflitto a questi minorenni, che perdono in tal modo anche gli ultimi legami e le relazioni con la famiglia, più o meno allargata, biologica.
di Silvana Bisogni
(Sociologa della famiglia. ISP Roma)