di Fiorella D’Arpino*
La Sentenza n.1830/11 della Suprema Corte, a cui la stampa ha dato risalto, ha suscitato stupore e perplessità poiché impone ad un padre l’obbligo di mantenere la figlia maggiorenne, laureata e sposata, ancora convivente con la madre.
In precedenza, il tribunale di Ferrara in prima istanza e successivamente la corte di appello di Bologna erano stati di diverso avviso, esonerando l’uomo dall’obbligo di di versare l’assegno.
La Corte di cassazione, invece, sostiene che il padre non aveva fornito la dimostrazione che costei era divenuta autosufficiente (anche attraverso l’attività lavorativa del marito), né tantomeno che il mancato svolgimento di un’attività professionale dipendeva da un suo atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato di avvalersi del titolo già conseguito (la laurea in scienze motorie).
Secondo il ragionamento dei Giudici, in questa vicenda il matrimonio contratto dalla ragazza con un giovane domenicano non ha inciso sulla sua vita, poiché la coppia vive stabilmente presso l’abitazione della madre della fanciulla, anche il giovane marito non lavora e deve ultimare gli studi; pertanto non si sono realizzate le finalità tipiche del matrimonio, ovvero la costituzione di una nuova entità familiare autonoma e finanziariamente indipendente: nella sostanza nulla è mutato, motivo per il cui il padre deve mantenere la figlia mediante il versamento dell’assegno di mantenimento a suo tempo stabilito nella separazione.
L’aver contratto matrimonio non è elemento di per sé sufficiente per far cessare gli obblighi in capo agli ascendenti ma, poiché l’art. 143 c.c. enuncia espressamente il dovere di entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia “in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo”, presuppone che ci sia un lavoro, destinato a soddisfare le necessità del nuovo nucleo.
La Corte ha evidenziato la peculiarità del caso, a differenza dei giudici di I° e II° grado che avevano considerato rilevante il solo fatto che la giovane aveva deciso di sposarsi, non considerando affatto che con il matrimonio nella sua vita non si era realizzato nessun cambiamento reale.
La vicenda stimola ulteriori valutazioni: se da un lato il ragionamento dei Giudici Supremi, sotto il profilo squisitamente tecnico-giuridico, è condivisibile, ciò non toglie che, esaminando la vicenda in un ottica sociologica e considerando che pronunce di questo tipo, come tutte quelle attinenti al diritto di famiglia, sono destinate ad incidere sul nostro costume e stile di vita, esse possono anche essere un campanello d’allarme perché evidenziano le carenze del nostro sistema politico- sociale.
Oggi, ad una libertà di scelta spesso non corrisponde un’assunzione di responsabilità.
Si è liberi di decide di contrarre matrimonio come, quando e con chi si voglia, com’è giusto che sia, senza però che ne consegua il dovere di attivarsi per realizzare le finalità del matrimonio stesso. I genitori (o il genitore, come nel caso esaminato) sono obbligati a patire la decisione del figlio.
E’ altresì evidente che si è arrivati a questo perché nel nostro sistema mancano politiche di sostegno alle giovani coppie; si pensi soltanto al problema dell’eccessivo costo degli alloggi, alla difficoltà di reperire un’occupazione stabile che consenta il raggiungimento di quella autonomia economica indispensabile affinché si realizzi la crescita dell’individuo sia che decida di realizzarsi da solo o in coppia.
A questo punto è lecito porsi un’altra domanda: nel resto d’Europa (Spagna, Francia Germania, Svezia, Norvegia e Inghilterra) dove nonostante le crisi economiche che si sono ciclicamente susseguite sono presenti politiche di sostegno per i giovani ci si imbatte in decisioni di questo tipo? La risposta è no.
* avvocato. ISP Roma