di Massimo Corsale *
Leggo sul numero 4/2009 di ISP notizie un interessante intervento di un collega sociologo, Arnaldo Spallacci, sul rapporto fra gli uomini e il movimento femminista, e non posso resistere alla tentazione di intervenire su una materia che, al di là dell’interesse professionale, mi tocca nel mio vissuto.
L’atteggiamento dei maschi nei confronti del movimento delle donne rappresenta per me un problema da sempre, e più in particolare dall’inizio degli anni ’70. Allora infatti nasceva in Italia quel movimento, e uno dei suoi primi punti di aggregazione fu il Movimento di Liberazione della Donna (MLD), nato all’interno del Partito Radicale. Si dà il caso che io, all’epoca militante di quel partito, mi ci trovassi coinvolto personalmente, trascinatovi da una compagna per cui nutrivo grande stima oltre che cordiale amicizia: Alma Sabatini, disgraziatamente venuta poi a mancare prematuramente.
Cosa c’entravo io, uomo, col movimento di liberazione della donna? La prima risposta che si sarebbe potuta dare sarebbe stata quella coerente con la moderna concezione universalistica della politica: un intellettuale progressista poteva naturalmente sposare la causa di una categoria sociale ingiustamente sottoprivilegiata; così come tradizionalmente gli intellettuali si erano trovati a fianco della classe operaia, si sarebbero potuti trovare a fianco delle donne “oppresse, represse, sfruttate ” (come recitava il primo manifesto dell’MLD). All’epoca la concezione universalistica della politica, di origine illuministica, non era ancora entrata in crisi irreversibile, come sarebbe accaduto nel decennio successivo: quindi una spiegazione di quel tipo non sarebbe stata scandalosa, in teoria.
Senonché uno scienziato sociale ha il dovere professionale di confrontare continuamente le teorie con i fatti, senza aggrapparvisi talmudisticamente. E i fatti si incaricarono di demolire senza riguardi un eventuale atteggiamento di quel tipo: alla prima manifestazione pubblica dell’MLD, in un piccolo teatro di Roma, incrociai una militante non appartenente alla nostra organizzazione, la quale mi apostrofò così: “E tu che ci fai qui? In questo momento, a casa, chi ti sta stirando la camicia?”.
Al momento non immaginavo che di lì a pochissimo avrei cominciato a gestire la mia organizzazione domestica come un bravo massaio. Ma non è questo il punto. Il punto è che le donne, diversamente dalla classe operaia, non mostravano alcun piacere di essere affiancate nella lotta dagli intellettuali: innanzitutto perché si consideravano abbastanza forti e attrezzate da poter condurre da sole la propria battaglia; e in secondo (ma non secondario) luogo perché i maschi, compresi quelli intellettuali, erano la loro controparte, e quindi non potevano essere alleati. Questa è la ragione per cui tanti maschi “progressisti” che ancora si dichiarano filo-femministi sembrano appartenere a un altro pianeta.
La verità, però, è che io già allora spiegavo la mia militanza “femminista” in ben altro modo. Non interpretavo quella delle donne come una lotta contro gli uomini in carne e ossa, bensì come un rifiuto del ruolo sessuale che la cultura fino ad allora dominante assegnava loro. E poiché i ruoli sessuali costituiscono un sistema, l’abbandono del ruolo tradizionale da parte della donna comportava la messa in crisi anche di quello dell’uomo: cioè precisamente quello che io aspettavo, perché a me (come, penso, a diversi uomini) quel ruolo stava stretto in quanto ostacolava la mia realizzazione.
Nel corso dei tanti anni che sono venuti dopo ho dovuto rendermi conto, a mie salatissime spese, che quella scelta di allora, il rifiuto del ruolo maschile tradizionale, comportava essere sospinto in mare aperto con bussole insufficienti, alla ricerca di una nuova, problematica identità maschile. Mentre le donne, dal canto loro, si sono adeguate con molta naturalezza alla logica post-moderna del conflitto sociale neo-corporativo, neo-particolaristico (altro che universalismo illuminista!): sul piano pubblico, accantonando l’eguaglianza per rivendicare la valorizzazione della differenza sessuale e concependo le “pari opportunità” nei termini del gioco a somma zero (tot posti a me, sottratti a te); mentre nei rapporti privati continuano chiaramente a preferire il vino vecchio (i maschi tradizionali: almeno si sa cosa sono!).
Naturalmente non ho titolo, ma nemmeno voglia, di fare del moralismo su tutto questo. Uno scienziato sociale deve solo rilevare la dinamica dei fatti, al di là delle ideologie e delle preferenze personali (che ovviamente ci sono, ma me le tengo per me). Ciò che però mi sembra gravemente fuorviante sono due cose: gli uomini che festeggiano l’8 marzo come fosse un 1° maggio (sul quale pure ci sarebbe molto da dire); e le donne che mistificano la loro attuale situazione (in occidente, naturalmente) come fosse ancora una situazione di sottoprivilegio (ammesso poi che lo fosse quella di prima).
Ma le donne del resto fanno il loro gioco, con tutti i mezzi, anche con la mistificazione. E’ normale: à la guerre comme à la guerre. Quelli che sono meno comprensibili son gli uomini, che generalmente non hanno capito di essere in guerra, e per di più disarmati: tanto per cominciare, con le idee confuse circa la loro identità.
Non solo studiosi di professione ma anche persone di buona cultura non “addette ai lavori” manifestano ostilità nei confronti dell’identità. Per esempio, in un mio recente libretto prevalentemente autobiografico (Diario di bordo, Salerno, Plectica, 2007) mi sono occupato specificamente di quest’ultimo problema. Le sole reazioni negative al mio discorso mi sono venute da uomini (maturi, colti, più o meno felicemente coniugati e collocati in posizioni sociali di prestigio) che contestavano la centralità, per il maschio d’oggi, del problema dell’identità di genere.
La cosa in fondo non è sorprendente, se si considera la rarità, nel dibattito pubblico contemporaneo, delle voci che richiamano i maschi alla loro responsabilità verso il proprio genere. Ma è ancor meno sorprendente se la si considera come un caso particolare di una tendenza generale, che si potrebbe addirittura considerare una sorta di “legge” sociologica: chi fa parte di un’identità collettiva debole tende a svalutare l’importanza dell’identità, rafforzando in tal modo la tendenza all’indebolimento della propria; o addirittura, per converso, la svalutazione dell’identità sul piano teorico costituisce inequivocabile sintomo della (forse inarrestabile) decadenza di fatto dell’identità di appartenenza di chi la professa.
Noi maschi occidentali di oggi siamo dunque diventati vasi di coccio costretti a viaggiare con quelli di ferro? E come possiamo fare a uscire da questa scomoda posizione senza mischiarci con gli orrendi modelli maschilisti proposti da altre culture? Mi sembra un tema degno, da parte dei maschi, di un’attenzione un po’ maggiore di quella che gli viene generalmente dedicata.
* sociologo. ISP Roma