“Chissà cosa direbbe mio padre”. Comincia così, stando alle notizie riportate dai giornali, la lettera di addio del quattordicenne che nella notte fra il 7 e l’8 agosto si è gettato dal terrazzo condominiale del palazzo dove abitava, nella borgata San Basilio, a Roma, perché aveva da poco riconosciuto la sua omosessualità, ma non sapeva come farla accettare agli altri, compresi i genitori. Probabilmente i genitori erano proprio il primo cruccio, che andava ad aggiungersi a quello per i
compagni di scuola, per gli amici, sempre pronti, a quell’età, allo sfottò crudele, se non al vero e proprio bullismo. Immagino che sia sempre così per un adolescente che vive con angoscia l’incertezza sulla sua identità sessuale, o che scopre senza dubbi che la sua è una identità “diversa”.
Il ragazzo di San Basilio, stando alle testimonianze dei vicini, non frequentava molto i coetanei, era sempre con il padre e la madre. Comprensibile che rivelare ai genitori il suo stato potesse divenire un compito insostenibile. “Nessuno capisce il mio dramma” – ha anche scritto il ragazzo – “e non so come farlo accettare ai miei genitori”.
Il suicidio di questo adolescente non è stato il primo e, probabilmente, non sarà l’ultimo. Perché la strada da percorrere verso l’accettazione di un orientamento sessuale che, se “diverso” rispetto a quello della maggior parte delle persone, non per questo è meno degno di rispetto e tutela, è disseminata di numerosi ostacoli: ottusità, ignoranza, intolleranza, violenza e nel migliore dei casi indifferenza. Il termine “diversità” usiamolo pure, senza connotazioni dispregiative ma in senso puramente statistico, come diremmo che in Svezia una persona con i capelli corvini è “diversa” – e meno comune – da una bionda.
Nel 2007, sempre a Roma, uno studente di economia ventiduenne si uccise gettandosi sui binari della metropolitana. Prima di farlo, inviò sms agli amici spiegando di essere omosessuale. Pochi mesi prima, a Torino, un ragazzo di 16 anni si
era gettato dalla finestra della sua abitazione, esasperato dai sarcasmi dei compagni perché gay. Recente il suicidio, di nuovo a Roma, di un quindicenne, che nel novembre dello scorso anno si è impiccato con una sciarpa, dopo che era stato messo alla berlina su Internet (qualcuno aveva anche costruito un sito su di lui, il “ragazzo dai pantaloni rosa”). Oggi – per inciso – il padre di quest’ultimo ragazzo, ancora in una intervista a Repubblica del 12 agosto scorso, afferma, “per amore di verità”, che suo figlio non era gay e che è stato accertato il suo innamoramento per una compagna di scuola.
Al giusto – e si spera sollecito – impegno legislativo deve affiancarsi (come per scongiurare i casi di femminicidio) un impegno culturale e sociale di educazione al rispetto di ogni persona. Ecco il punto: non uomo, o donna, gay o transessuale….
Semplicemente: persona!
Azzardarsi a dare consigli ai genitori per prevenire queste tragedie può sembrare presuntuoso e fuori luogo. Tuttavia, qualche riflessione va pure fatta. Ed esse riguardano soprattutto i padri. Non starò a ricordare le teorie che associano alla omosessualità maschile una presenza dominante e invasiva della madre a fronte di una figura paterna debole e assente, e che in essa vedono una forma di “sostituzione del padre” (Yablonsky, 1982). Teorie che possono essere riassunte
nella affermazione che “un rapporto col padre inappropriato o inadeguato è un fattore di importanza principale nello sviluppo della omosessualità sia femminile che maschile”. (Biller, 1974). Padri deboli (o freddi, distaccati, psicopatici,
egocentrici…) possono – secondo queste teorie – favorire lo sviluppo della omosessualità in un figlio. Naturalmente sono di diverso avviso le teorie che vedono nella omosessualità una eziologia biologico-genetica.
Quello che qui merita rilevare è che in questi casi l’ostacolo che terrorizza un giovane figlio alle prese con la sua sessualità è di solito il padre. La madre può essere disposta ad accettare l’outing di un figlio, il padre no. E si capisce perché: ogni padre si proietta nel figlio in quanto maschio. Non sono trascorsi molti anni da quando in Italia il futuro padre sognava regolarmente che il figlio fosse maschio e che ne riflettesse la virilità e il cognome. Un figlio con il quale identificarsi e al quale offrire un modello di virilità secondo i canoni imperanti di una società sostanzialmente maschilista. La femmina era vista spesso come un… ripiego. Ancora oggi in molte realtà sociali pesa sulle donne la condanna di questo stereotipo.
Molti padri reagiscono non solo con delusione, ma con rabbia e violenza alla scoperta di un figlio gay. Anni fa una madre alla quale il figlio aveva confidato la sua omosessualità in una lettera al giornalista della Stampa Massimo Gramellini scrisse: “Non dirmi di parlarne con mio marito: tempo fa mi disse che se gli fosse capitato un figlio gay lo avrebbe cacciato da casa e cancellato per sempre dalla sua vita (‘meglio drogato o ladro che gay’)”. Nel 2008, a Palermo, un padre accoltellò il figlio diciottenne, che aveva dichiarato la sua omosessualità. Il ragazzo si salvò con la fuga e l’uomo si giustificò così ai carabinieri che lo arrestavano: “Troppa vergogna, per me un figlio gay è un disonore”.
Nel suo Come allevare un bambino felice, Françoise Dolto, riporta il caso di un bambino di sette anni e mezzo che amava stare con le femmine, ricamare, cucire e adorava il balletto. Suo padre – racconta la mamma del bambino – “vedendo i comportamenti del figlio, viene preso da spaventosi furori, lo insulta e lo tratta da ‘finocchio'”. Un padre che “quando vede qualcuno effeminato per strada, gli vien voglia di spaccargli la faccia”. “Ma perché” si chiede Dolto – “il padre è così aggressivo verso il figlio? Perché non gli vuol bene, per quello che è, e non lo aiuta a diventare diverso?” La frase si presta a equivoci. Aiutarlo a “diventare” diverso da com’é, eliminando i comportameneti effeminati? Sarebbe contraddittorio con il volergli bene “per quello che é”. O aiutarlo a “essere diverso”, ossia accettare la diversità?.
Dopo aver detto che nell’omosessualità non c’è nulla di fisiologico, ma si tratta di una “struttura psicologica”, Dolto osserva che “certi bambini sono condotti a questa struttura psicologica quando sono piccoli, a causa di un atteggiamento ostile
del padre verso la loro femminilità, se sono maschi, come alla mascolinità se sono femmine”. Insomma, un padre che contrasta aspramente l’orientamento sessuale del figlio può per ciò stesso rinforzarlo. Un bel paradosso, dalle conseguenze talora drammatiche.
Non conosco, naturalmente, i rapporti familiari che legavano l’ultima giovane vittima ai suoi genitori; non so nulla dell’ambiente familiare e del comportamento paterno. Tuttavia mi ha colpito, di quel padre, una frase riportata dai giornali: “Una settimana fa aveva cercato di parlarmi, avevamo intavolato una discussione sull’omosessualità. Non gli ho dato peso”. Ecco: alle tante responsabilità dei padri si aggiunge anche questa: saper cogliere – e darvi peso! – il disagio di un figlio che non trova il coraggio di confidarsi con il grnitore perché ne teme la reazione. Ci pensino i padri: l’alternativa potrebbe essere il rimorso per una intera vita.
di Maurizio Quilici
(Presidente dell’ISP)