di M. Mirella D’Ippolito *
Da anni tengo corsi per “Genitori Efficaci” (Gordon) anche e soprattutto presso l’Istituto di Studi sulla Paternità. Da anni lavoro come psicoterapeuta in terapie individuali e familiari, in queste ultime con l’intervento soprattutto sulla coppia genitoriale.
Riflettendo sulla mia esperienza, ho potuto verificare che la partecipazione dei padri ai corsi per genitori è bassa, circa uno su cinque, e nelle terapie individuali la percentuale dei padri o delle persone di sesso maschile è ancora più bassa, circa uno su dieci. Nelle terapie familiari, dove in genere sono i bambini o gli adolescenti a dare l’allarme con qualche sintomo, i padri, in genere, vengono coinvolti dalle madri. Perché?
Alla luce della crisi di identità attuale della figura maschile mi viene l’ipotesi di una grossa necessità di differenziazione. La donna partorisce generando, per la stragrande maggioranza dei casi inconsciamente e da sempre, invidia nell’uomo che non può creare, dentro di sé, addirittura un altro essere umano. E oggi, con l’emancipazione, anche se permangono spesso situazioni di subalternità, le donne hanno preso tutti i posti un tempo prerogativa solo dell’uomo. Mancava il direttore d’orchestra, ora c’è anche quello al femminile. Prima l’uomo, il padre, rappresentava il contatto con il sociale, con il reale, con la “legge del padre”, con il mondo del lavoro. Oggi non è più così.
Chi dunque è l’uomo come genere maschile oggi? Probabilmente per differenziarsi, c’è chiusura verso gli aspetti emotivi, verso l’interiorità, l’allontanamento da tutto ciò, che si somma alla storica questione culturale per cui l’uomo non deve prendere contatto con i sentimenti.
Quando poi è possibile coinvolgere i padri o le persone di sesso maschile, si scopre che nell’uomo è molto più elevata la capacità di entrare in contatto con le emozioni senza perdersi, è maggiore l’equilibrio fra razionalità e emotività ed è minore la perdita dei confini interpersonali.
E qui vorrei richiamarmi a Jung e ai suoi allievi e alla loro individuazione dei caratteri della Mascolinità e della Femminilità. «Nella Mascolinità [si riscontrano] elementi quali l’autonomia, l’assertività, ma anche l’aggressività, la coscienza, ma anche la troppa razionalità e rigidità, l’essere proiettati all’esterno, talvolta solo. Nella Femminilità elementi quali la capacità di contattare le emozioni, l’introspezione, la dimensione inconscia nella creatività e nel caos, ma anche un logos rigido, la capacità di essere recettivi ma anche la passività, l’incontro con le radici» (D’Ippolito, Nardini, Il concetto di guarigione. La costante e la relatività in psicoterapia, Appendice, Alpes Italia, 2010).
Tali caratteristiche sono presenti in gradi diversi sia nelle donne che negli uomini e il gioco tra di esse è molto soggettivo, ma la crisi d’identità con il bisogno di differenziazione e l’influenza culturale sembrano ossificare spesso tali caratteri nell’uomo. «In ogni caso sembra positivo che aspetti sia della Mascolinità sia della Femminilità convivano nella stessa persona: la cosiddetta androginia» (ibidem), e l’androginia sembra oggi più presente nelle donne che negli uomini.
Inoltre, anche in terapia, l’uomo “parla” molto di più con il non verbale. Gli uomini vanno “letti” nelle espressioni non verbali. La donna, invece, abbonda nel verbale, a volte anche eccessivamente. E questo è un fatto legato alla natura più che alla cultura. L’uomo ha un modo di espressione a volte più ambiguo, ma più autentico. Tali differenze si legano anche ad aspetti sessuali: l’uomo proietta all’esterno, la donna all’interno. L’uomo dà all’esterno, la donna riceve. L’uomo non può mentire nell’atto, la donna sì, il che comporta aspetti positivi e negativi per entrambi nel rapporto fra uomo e donna.
Dunque, assolutamente solo guardando al mondo industrializzato, alla luce di tutto questo, non se ne può più con il pianto sulle donne. Le donne in carriera sono spesso terribili, a detta di molte persone anche in terapia, soprattutto con le altre donne. Mi diceva una collega: “Abbiamo aperto uno sportello per la donna”. Ho detto: “E’ ora di aprire uno sportello per gli uomini”.
Ma esiste anche un altro aspetto: ricerche da più parti condotte hanno dimostrato che gli uomini conseguono migliori risultati con terapeuti di sesso maschile e viceversa per le donne. Bisognerebbe quindi ascoltare l’esperienza di un terapeuta uomo in relazione alla “percentuale” di partecipazione. E’ anche vero però che la stragrande maggioranza dei terapeuti è di sesso femminile, e ciò probabilmente per tutto quanto sono venuta dicendo. E’ come, quindi, se si creasse un circolo vizioso.
E allora, se è vero che «le psicoterapie sono nate e continuano ad essere uno dei pochi ausili validi all’integrazione …» (S. Di Nuovo in D’Ippolito, Nardini, op. cit.), le donne, come terapeute e come utenti stanno forse cambiando il mondo con una rivoluzione silenziosa? E qui ci viene in aiuto Rogers: «Nella misura in cui ciascuno di noi è disposto ad essere se stesso, scopre non solo di stare cambiando il mondo, ma che le persone con le quali si relaziona stanno anch’esse cambiando».
Gli uomini accettano che le donne vadano in terapia, i partners permettono che le compagne si mettano in discussione e tentino in ogni modo di essere se stesse. Gli uomini, i padri, accettano di cambiare indirettamente sapendo che ciò avverrà ed avviene. E direttamente, ad esempio nei corsi per genitori, gli uomini, una volta fatto il passo, si integrano perfettamente (anche se ciò è molto dovuto alla capacità del “facilitatore”). Tutto questo era vero già quindici anni fa. Ora che la psicologia ha raggiunto una diffusione ed una accettazione maggiore, risulta molto più evidente.
Tutti questi cambiamenti investono anche l’area della sessualità, con l’uomo che da un lato teme un legame e vive spesso una inferiorità verso la donna che ha talvolta un livello di studi superiore, dall’altro presenta livelli di impotenza che raggiungono il 30% (Psychiatry on line). La donna del resto, se da un lato ha superato in grande parte vissuti di frigidità, dall’altro presenta sempre più spesso sterilità psicogena.
Ma questo è un mondo difficile da esplorare per il pudore e la reticenza ad affrontarlo del passato, per cui non abbiamo termini di paragone, così come per la omosessualità di ambo i sessi, un tempo nascosta e fino al DSM III considerata ancora una malattia. Il quadro si complica poi in modo esponenziale tenendo conto della interculturalità attuale.
Emergono in questo panorama, laddove riescono a superare questi tanti ostacoli, nuovi padri che, al di là delle paure di pedofilia, considerando che esiste e se ne parla pochissimo (l’unico libro trovato è E se l’orco fosse lei?) anche perché meno eclatante benché talvolta più dannoso, un sommerso di abuso femminile, emergono nuovi padri, dicevo, che finalmente si permettono di esprimere l’affettività e la tenerezza (Quilici, Storia della paternità, Fazi, 2010).
Dopo tutto quanto ho detto, tengo a sottolineare che ho molto apprezzato, sempre di Maurizio Quilici, l’editoriale di ISP notizie 1/2010 “Pari opportunità, ma delle persone”, poiché, pur nei tratti di generalità sia da me che da lui affrontati, riconduce tutto alla persona.
* psicologa e psicoterapeuta. ISP Roma