di Francesca Rosati *
Come molte categorie di uso quotidiano, il termine “detenuti” comprende realtà – storie di vita, singole persone con i loro desideri e progetti più o meno consapevoli, spesso con le loro patologie mentali – uniche e diverse le une dalle altre, nonostante l’ulteriore suddivisione in sottocategorie come tossicodipendenti, sex-offenders, delinquenti professionali, mafiosi, pentiti, ecc.
Volendo cogliere le differenze in questo universo magmatico, è intanto un triste primato che la stragrande maggioranza dei detenuti siano uomini (le donne, secondo il dato Istat del 2006, erano solo il 4,3% della popolazione detenuta). Questa differenza di genere nell’entrare nelle maglie della giustizia penale è un discorso complesso ed esula dall’argomento della paternità in carcere. E’ un fatto però che, nell’ambito penitenziario, si parla molto spesso dei danni per i figli derivanti dalla detenzione materna e forse poco di quelli connessi alla detenzione dei padri; eppure i padri detenuti sono tantissimi.
Esiste anche il problema di paternità troppo precoci e casuali, soprattutto tra i tossicodipendenti, tanto precoci che i padri ragazzini o si fanno espropriare la paternità dai servizi sociali o tirano avanti con i “lavori” (leggasi rapine e furti), aderendo a un modello materialistico di soddisfazione dei bisogni dei figli e della compagna.
Inoltre, esiste una relazione quasi osmotica tra carcere e ambienti sociali fortemente degradati. Si pensi per esempio alla zona della Bastogi a Roma o al tristemente noto quartiere di Scampia di Napoli. Come si vive la paternità in questi luoghi degradati ed emarginati? Essere padre ed essere madre generalmente significa pensarsi genitore già prima della nascita del figlio concepito. Dov’è la possibilità di pensare le relazioni intime nel degrado?
La legge tutela la continuità dei rapporti familiari dei detenuti prevedendo un certo numero di facilitazioni (misure alternative alla detenzione concesse dalla Magistratura di Sorveglianza, colloqui in carcere e telefonate a casa). Per le donne madri è prevista la (discussa) possibilità di tenere con sé, in apposite sezioni carcerarie chiamate “nidi”, i figli fino al compimento del terzo anno di vita.
Piano piano, l’auspicata parità di diritti alla genitorialità per le donne e gli uomini, e sempre nel tentativo primario di favorire il diritto dei minori alle cure genitoriali fuori dal carcere, ha portato ad un adeguamento delle norme previste per tutelare il rapporto dei figli con il genitore detenuto.
La mia impressione personale è che negli istituti normativi alternativi alla pena in carcere in favore della genitorialità, i padri intervengano solo in sostituzione delle madri assenti. Infatti, per fare un esempio, l’art. 47 quinquies (Detenzione domiciliare speciale) della L. 26 luglio 1975 n. 354, introdotto nel 2001, al comma 1 prevede che “le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci,(…) possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo.
Lo stesso articolo, al comma 7 prevede che “La detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”. E’ molto più comune che i figli vengano affidati temporaneamente a genitori adottivi (non sempre adatti al ruolo di genitore a tempo determinato), oppure alle case-famiglia.
Più comunemente il rapporto padre-figlio viene mantenuto con i colloqui in carcere e, quando sono piccoli, i figli sono accompagnati dai familiari disponibili. E’ riconosciuto il diritto del minore fino a 12 anni di avere colloqui che comportino una maggiore libertà fisica, di gioco e di contatto fisico col padre, in aree verdi dotate di giochi, gazebi, giardini. Oltre i 12 anni le opportunità divengono uguali a quelle di tutti gli altri familiari stretti. C’è sempre la possibilità di incontri in area verde – ma in numero minore – e colloqui in sale, spesso affollate, con la separazione di un tavolo. Per non parlare delle restrizioni imposte ai colloqui dei detenuti per mafia (cosiddetto regime 41 bis, comma 2, sempre della L. 354/75).
Durante la carcerazione i comportamenti e le scelte dei padri variano. E’ facilmente intuibile che il senso di inadeguatezza e la paura del fallimento, il padre incarcerato, quando il figlio è molto piccolo, lo vive soprattutto nei confronti della compagna e della famiglia di costei.
Il padre può scegliere rigidamente di non far entrare il figlio nel carcere “per non fargli vedere le divise”, per evitargli il disagio delle lunghe attese prima di poter entrare dove si svolgono i colloqui. Oppure decide insieme con la compagna di mentire al figlio e non fargli sapere che sta in carcere. Allora scrive al figlio che sta lavorando, che sta all’estero, che presto tornerà. “Tanto lui non capirebbe e poi non voglio che sappia, si vergognerebbe a scuola”. Non si può prevedere quali effetti avrà questa menzogna e come sarà metabolizzata dal figlio quando sarà un adolescente. Mi fa anche ipotizzare una difficoltà paterna, legata alla carcerazione, a elaborare le separazioni e di conseguenza a preferire un taglio netto.
Altri padri cercano di affrontare il discorso della loro permanenza in carcere quando sentono che i figli cominciano a porre domande. Uno di loro mi ha detto: “Mia figlia ha nove anni, mi sono perso tanti anni della sua vita, da quando aveva tre anni e mia moglie se ne tornò dai suoi perché io non ci stavo con la testa. Ora mia madre mi porta la bambina e ho iniziato a spiegarle che quando si sbaglia, quando ci si comporta male, poi si è costretti a stare in questi posti, dove si lavora, si mangia, si può guardare la televisione, ma non si può uscire per un certo tempo. Lei non ci fa molto caso, mi sta sempre abbracciata”.
Quando le ripetute detenzioni del padre sono un fatto normalmente accettato per tutta la famiglia, perché il suo “lavoro” è la fonte principale di mantenimento, i colloqui diventano un’abitudine, un’occasione di festa. Penso a quelle famiglie zingare numerose, dove la divisione dei ruoli fra madri e padri è ben distribuita e nonni, zii e fratelli assumono funzioni vicarie.
Più dolore, e anche forte, è connesso invece alle problematiche di tossicodipendenza e di ricadute. Lì, il senso di inadeguatezza del padre è un dolore troppo forte per essere riportato in cella al momento sempre inopportuno del commiato, soprattutto quando la precarietà dei rapporti con la compagna minaccia la continuità del rapporto col figlio. Il senso di colpa che affligge il tossicodipendente fa parte del circolo vizioso della dipendenza dalle sostanze sedative o eccitanti, per cui non se ne esce senza una terapia profonda.
E poi, dato che la presenza di stranieri irregolari nelle carceri è molto alta, si consideri la sofferenza della “doppia assenza” (Sayad Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Raffaello Cortina, 2002) del migrante che non ha più una terra: ha lasciato figli nel paese di origine – dove non se la sente di tornare e di cui tende a non parlare – , e magari ne ha avuti altri in un paese dove è clandestino e non può riconoscerli per poterli vedere in carcere.
Si può concepire il carcere come un frigorifero delle emozioni e del pensiero, dove esplodono solo la rabbia e l’ansia – contenute dal personale di vigilanza – e dove sono in vigore codici di comportamento rigidi, da rispettare per non trovarsi in difficoltà in una piccola comunità negativa, con la quale venire a patti è obbligatorio per poter sopravvivere. La detenzione si trasforma in un tempo vuoto e di attesa. “Sprecato” si è definito un uomo durante un colloquio. E si riferiva alla sua vita, alle sue scelte e alla sua carcerazione.
Una delle attività che è stata organizzata recentemente qui a Rebibbia Nuovo Complesso per favorire il pensare è il laboratorio di scrittura coordinato da alcune insegnanti. Ne son venuti fuori parecchi racconti scritti da detenuti (Luciana Scarcia (a cura di), L’umano e il suo rovescio. Racconti dal carcere. Sinnos Editrice, 2009). Di questi, tre parlano del fallimento e dei sensi di colpa strazianti per le promesse non mantenute verso il figlio, dell’espropriazione del proprio ruolo paterno da parte del padre della compagna, e uno del ricordo della gioia del diventare padre e dell’assistere in sala parto alla nascita della propria bambina. Cosa che però non ha impedito una ulteriore ricaduta nei reati.
Un grave problema mi sembra, infine, il fatto che nelle carceri e nelle famiglie degradate esista un livello molto grave di patologia mentale di cui il Servizio Pubblico non si occupa perché non ha risorse.
* Educatrice penitenziaria Casa Circondariale Rebibbia. ISP Roma