di Bernadette Cimmino *
La separazione coniugale si configura come un evento stressante a rischio di slatentizzare aspetti psicopatologici in soggetti, ritenuti in precedenza normali, che erano tenuti in fase di compenso dalla relazione coniugale e dal rapporto genitore – figlio. La conseguenza è la possibilità dell’emergere, in tutti i componenti della famiglia, di disagi psichici, che possono essere acuti o cronici, cioè transitori o prolungati, e che sono direttamente legati all’intensità dello stress, alla sua durata e alle difficoltà di riadattamento dopo la separazione.
Sia all’interno dell’attività peritale che in ambito più strettamente psicoterapeutico, i clinici riscontrano frequentemente situazioni altamente conflittuali in cui la coppia in fase di separazione si avviluppa in un groviglio di tensioni che rendono il terreno genitoriale un campo dove si combattono aspre battaglie e si convogliano tensioni che appartengono all’area della coniugalità. Spesso, infatti, le coppie che decidono di separarsi, non riuscendo a gestire e risolvere conflitti che riguardano la sfera coniugale, trovano un modo di non confrontarsi attraverso lo spostamento di queste tensioni nell’area genitoriale. Si vengono così a confondere le due sfere, quella coniugale e quella genitoriale, a danno sia del benessere dei propri figli, che del processo di elaborazione del lutto connesso alla rottura del legame. Queste coppie riescono a mantenere una conflittualità molto elevata anche per diversi anni, assicurandosi così una sorta di protezione dalla separazione. E’ un modo per continuare a mantenere un legame e non affrontare il faticoso processo elaborativo del lutto che la separazione porta con sé, un modo per non raggiungere mai quello che gli esperti chiamano il “divorzio psichico”, scelta della quale pagano il prezzo più alto proprio i figli.
A tal proposito è di notevole interesse lo studio di Richard Gardner, psicoanalista e psichiatra infantile e forense, riguardo a quei casi in cui l’evento separazione coniugale coinvolge i figli in una conflittualità esasperata e non governata. Lo studioso Statunitense, negli anni ottanta, ha individuato nell’ambito delle controversie legali della separazione la Parental Syndrome Alienation (PAS) recentemente accolta nella psicologia italiana e tradotta da Gulotta e Buzzi in Sindrome di Alienazione Genitoriale. Si tratta di una vera e propria sindrome, caratterizzata da un insieme di sintomi differenziati, ma legati da una comune eziologia, che compaiono associati e che causano specifiche difficoltà. Essa si manifesta in particolar modo in soggetti in età evolutiva, un’età frequentemente compresa tra i 7 e i 14/15 anni, nel contesto di controversie per l’affidamento dei figli.
Questa è la dinamica che viene a determinarsi: il genitore “alienante”, che è il genitore collocatario in ipotesi di affido condiviso o il genitore affidatario in ipotesi di affido esclusivo, attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore, detto genitore “alienato”, attraverso la programmazione del figlio, una programmazione che non rimanda semplicemente ad un’opera di convincimento del figlio stesso, ma è un processo più complesso nel quale i tentativi di coinvolgimento sia impliciti che espliciti raggiungono il livello cognitivo del figlio, a tal punto che il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione rivolta contro il genitore alienato. L’obiettivo precipuo di questa campagna di denigrazione è quello di distruggere qualsiasi contatto tra il figlio e il genitore alienato e non ha alcuna giustificazione in termini di abusi o comportamenti omissivi da parte del genitore alienato. Infatti, per poter diagnosticare una situazione di PAS, è necessario escludere reali abusi, violenze o comportamenti omissivi del genitore alienato nei confronti del bambino.
Un genitore che sistematicamente programma un bambino per spingerlo ad una condizione di continua denigrazione e rifiuto dell’altro genitore rivela un totale disprezzo per il ruolo che il genitore alienato ha nell’educazione del bambino e, cosa ancora più grave, determina la rottura della relazione tra l’altro genitore e il proprio figlio, che è di fondamentale valenza per il benessere del minore. Questo dipende infatti dalla possibilità di poter godere di una situazione relazionale caratterizzata dall’apporto educativo di tutti e due i genitori.
Ne consegue che il genitore alienante con il suo comportamento lede un diritto fondamentale del minore, consistente nel diritto di crescere con l’apporto di tutte e due le figure parentali primarie e di poter accedere ad essi anche in situazioni familiari disfunzionali. In questo senso, pertanto, è possibile leggere la sindrome di alienazione genitoriale come lesione del diritto del minore alla bigenitorialità, una sindrome il cui esito è un danno al minore da mancata bigenitorialità, ovvero da mancato accesso ad una delle due figure affettive primarie, materializzandosi nella lesione di un diritto inviolabile del minore consistente nel diritto a svolgere un armonico rapporto affettivo con entrambi i genitori.
E’ chiaro però che il genitore alienante crea un grave pregiudizio anche al genitore alienato, perché ostacolando la sua partecipazione alla crescita e alla vita affettiva del figlio, gli impedisce di assolvere ai propri doveri nei confronti del figlio, di realizzare effettivamente il rapporto parentale con il figlio, di esercitare i propri legittimi diritti di genitore.
Alla luce di quanto affermato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nella sentenza n. 26972 del 11.12.2008, in merito alla qualificazione del danno non patrimoniale come “lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica”, risulta possibile qualificare il danno da alienazione parentale in termini di mancata bigenitorialità come danno non patrimoniale che presenta i contorni del danno esistenziale, risolvendosi in una modificazione in peius, anche a lungo termine, della qualità della vita del figlio. E’ inoltre evidente che anche la qualità della vita del genitore alienato subisce una modificazione peggiorativa.
Si delinea così una responsabilità genitoriale come responsabilità aquiliana bidirezionale, ovvero rinvenibile in due direzioni e verso due soggetti (il genitore ed il minore alienati), ma originata dalla stessa persona, il genitore alienante. E’ pertanto auspicabile che coloro i quali si trovino ad affrontare situazioni di separazione o divorzio in presenza di figli minori, cerchino di ridefinire i confini familiari e riorganizzare i rispettivi compiti distinguendo la funzione coniugale da quella genitoriale così da arrivare, in situazioni ottimali, a raggiungere la “cogenitorialità”, ovvero una capacità di coordinazione e coregolazione dei relativi ruoli.
* dottore in Giurisprudenza. Salerno