L’articolo 12 delle cosiddette preleggi (norme premesse al codice civile) recita testualmente: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole”.
Il fatto è che le leggi più recenti sono disseminate di parole a senso multiplo, o prive di senso pratico; cosicché si prestano ad essere interpretate nel modo più conveniente alla sensibilità sociale di breve periodo, agli umori registrati nei convegni, ma anche nelle piazze, nei network e nei talk show televisivi.
Prendiamo ad esempio la questione (giuridica) dei rapporti tra genitori e figli. In un recente convegno – oltre che su questa Rivista (n.2 del 2012) – avevo brevemente ragionato sulle parole “potestà” e “responsabilità genitoriale”, allo scopo di chiarire che esse esprimono concetti (e concezioni) differenti.
La legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), sensibile a tali differenze, giustamente lascia sussistere la parola “potestà” (articolo 1, comma 6). Dove poi conferisce delega al Governo per la revisione di altre disposizioni, impone al legislatore delegato di delineare “la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale” (articolo 2, lett. h): dunque, correttamente, il concetto giuridico di potestà doveva rimanere nel codice, e la responsabilità
dei genitori doveva essere disciplinata quale aspetto saliente e conseguente di essa.
Fin qui, nulla da eccepire, dato che il genitore, munito di potestà per impartire al figlio una corretta educazione, è poi responsabile dei danni provocati dall’inadempimento dei suoi doveri.
Purtroppo, la bozza di decreto legislativo approntata dalla commissione appositamente istituita, presieduta dal professor Cesare Massimo Bianca, approvata dal Consiglio dei Ministri il 12 luglio 2013, ignorando i limiti della delega – e perciò incorrendo in un vizio di eccesso – elimina del tutto la parola “potestà” e la sostituisce, ovunque la s’incontri, con la frase “responsabilità genitoriale” (v. art. 6, art. 7 commi 10 e 12, art. 37 comma 2, art. 43 lett. b, ecc.).
Ciò significa che il concetto di potestà dei genitori è stato escluso dal nostro codice? Niente affatto! Significa soltanto che una parola chiara – potestà = autorità + responsabilità, per antichissima interpretazione – è stata sostituita con una ambigua, in modo che ognuno possa interpretarla secondo le circostanze, più volentieri contro uno dei genitori o entrambi.
L’equivoco è tanto evidente da generare infortuni nello stesso testo di legge. Per adempiere l’obbligo di istruire ed educare i figli (articolo 3) i genitori debbono essere titolari della potestà corrispondente; se non la usano adeguatamente, scatta la responsabilità. Questa, una volta accertata, comporta che la potestà (di educare, di rappresentare il figlio) sia tolta o limitata al genitore inadempiente, ferma restando la sua responsabilità per gli obblighi di mantenimento della prole. Ma è assurdo stabilire – come fanno gli articoli 50 e seguenti del decreto legislativo in parola, modificando gli articoli 330 e seguenti del codice civile – che quando il genitore viola o trascura i propri doveri gli sia tolta la “responsabilità”: vogliamo scherzare?! Deve smettere di nuocere al figlio, perdendo la potestà, ma la responsabilità deve rimanergli tutta intera!Si dice bene, però, che nel bicchiere semivuoto rimane qualcosa da bere.
Tutta questa riverenza per la parola “responsabilità” può essere valorizzata dall’interprete. Mi limito ad un solo esempio, cruciale.
Un genitore pienamente responsabile di “mantenere” il figlio non può essere escluso dalle decisioni riguardanti la sua vita e la sua crescita naturale. Non gli si può impedire di adempiere un obbligo, del cui mancato rispetto sarebbe responsabile. Quindi, se la moglie decide di abortire, il marito non può essere tenuto fuori dalla porta, come oggi permette l’articolo 5 della legge 22 maggio 1978, n. 94, ma dev’essere almeno sentito, giacché l’obbligo di mantenere (in vita) il figlio incombe paritariamente ad entrambi i genitori. C’è sicuramente un conflitto, fra diritto alla vita del figlio e diritto della madre di non subire danno dalla gravidanza, ma il diritto del figlio deve poter essere sostenuto da qualcuno responsabile, e questo è il padre.
Analogamente, i genitori non possono essere esclusi dalla decisione di abortire della figlia minorenne, nei confronti della quale hanno una responsabilità di educazione.
Finora, la Corte costituzionale non ha affrontato in profondità l’argomento, essendosi sostanzialmente trincerata dietro l’insindacabilità della scelta politica del legislatore (così, per es., nell’ordinanza n. 389 del 1988); ma ora sembra che la scelta politica del legislatore sia cambiata in modo più incisivo a favore della responsabilità: parola che, in casi simili, resterebbe del tutto priva di senso.
Insomma, l’ambiguità della legge è una cosa (deplorevole); la mancanza di senso (insensatezza) la renderebbe incostituzionale.
di Giuseppe Magno
(Magistrato. Già Direttore Generale del Dipartimento di Giustizia Minorile)