La ricerca: Intitolata ‘Paternità senza sbarre’, è stata svolta fra ottobre 2013 e novembre 2014 sulla base di un progetto elaborato dall’I.S.P., Istituto di studi sulla paternità, fondato a Roma nel 1988. Si è articolata nella somministrazione assistita di un questionario con 30 domande a 197 detenuti comuni in sette carceri italiane: Rebibbia (Roma), Velletri, Civitavecchia Nuovo Complesso, Civitavecchia Casa di Reclusione, Secondigliano (Napoli), Ucciardone (Palermo), Sollicciano (Firenze). Alla distribuzione e compilazione del questionario è seguito un colloquio con il detenuto.
Inserire il proprio nome ed indirizzo email per una copia della ricerca ‘Paternità senza sbarre’ in formato PDF
Registrazione della presentazione della ricerca
Obiettivo della ricerca: approfondire e rendere noto il tema della paternità in carcere, argomento trascurato e a molti sconosciuto ma di enorme portata umana e sociale; cogliere gli aspetti critici di una paternità reclusa, non solo quelli logistici, pratici (le telefonate, i colloqui, la corrispondenza…), ma i vissuti più profondi, emotivi (il senso della lontananza e dell’impotenza, i dubbi sul proprio ruolo, il senso di colpa…).
La ricerca si conclude con una richiesta al DAP e al Ministero di Grazia e Giustizia: istituire un tavolo di lavoro multidisciplinare che affronti il tema della paternità in carcere ed esamini la possibilità di eliminare le criticità che si oppongono ad una paternità meglio vissuta e di rafforzare al contempo una paternità più matura e responsabile.
I risultati: Il contatto con i figli è assicurato soprattutto dai colloqui, che avvengono settimanalmente per il 34% dei detenuti; il 41% di loro incontra i figli una volta al mese o meno e il 22% non li vede mai. Il ricorso al telefono risente della lontananza (ne sono esclusi i detenuti con figli in un paese straniero), ma soprattutto della frequenza e del tempo disponibili (dieci minuti una volta alla settimana), così il 43% dei padri da noi ascoltati non ricorre a questo strumento, trovandolo imbarazzante e stressante. Sembra invece svolgere una funzione catartica lo scrivere lettere ai figli: lo fanno quasi tutti: il 24% settimanalmente, il 26% più volte a settimana. Sei padri su cento hanno detto di scrivere quotidianamente.
Ad accompagnare i figli agli incontri con il padre è anzitutto la madre (60%), ma i nonni vengono al secondo posto (26%), a dimostrazione di come queste figure siano sempre più presenti in molteplici circostanze.
La grande maggioranza dei padri (75%) ritiene che la moglie/compagna si adoperi per favorire il rapporto fra lui e i figli; all’opposto risalta la particolare difficoltà dei detenuti che sono separati, dove alle criticità usuali della separazione conflittuale si accompagna un surplus di impotenza facilmente intuibile.
Ben diverse le risposte – ma questo non sorprende – alla domanda se la Direzione dell’istituto penitenziario faccia il possibile per favorire il rapporto padre-figli. 43 detenuti su 100 hanno risposto ‘no’, 25 ‘abbastanza’ e 32 ‘sì’. Quello che colpisce – in questa come in altre domande – e deve far riflettere, la marcata differenza tra un carcere e l’altro: per il ‘sì’ si passa dal 47% al 9%.
Particolare importanza abbiamo annesso alla domanda se sia possibile ‘essere un buon padre nello stato di detenzione’. Poiché la reclusione tende a produrre svalorizzazione del sé, infantilizzazione e deresponsabilizzazione, passività, rinuncia, scoprire che sette padri su dieci ritengono che ciò sia possibile è stata una ‘sorpresa’ ricca di significato: c’è dunque una fiducia sulla quale si può operare e che può costituire terreno fertile di empowerment.
Il luogo e il modo in cui si svolgono le visite hanno prodotto le risposte più critiche, evidenziando una profonda insoddisfazione dei padri detenuti. Quasi il 50% si è detto scontento: per la mancanza di privacy, per la brevità del colloquio, per l’atteggiamento a volte severo di chi sorveglia, per la scarsa accoglienza dei locali, inadatti a bambini… Anche qui, evidentissime le differenze di risposta fra un istituto e l’altro.
I detenuti non parlano molto dei loro problemi di paternità, sembrano non cercare (o non trovare) un interlocutore. Se lo fanno, lo fanno soprattutto con l’educatore penitenziario (31%), o con altri detenuti (27%). Ma alla domanda se riterrebbero utili incontri con esperti di paternità il 57% risponde di sì.
Sul versante emozionale, alla domanda ‘cosa le manca di più di suo figlio’, il 50% ha risposto con una sola parola: ‘Tutto!’ E poi: ‘dargli la buonanotte’, ‘il suo odore’, ‘il suo sguardo’, ‘vederli dormire’. Molti vivono l’angoscia dei momenti perduti, della lontananza: ‘Ogni attimo, ogni cosa nuova, ogni momento che manco è una perdita. Ogni emozione, ogni passo che fanno , tutto è una perdita’.
Anche l’ultima domanda: ‘Quale sarà la prima cosa che farà assieme a suo figlio non appena sarà di nuovo libero’, ha suscitato molte emozioni. Un uomo ha risposto: ‘Ubriacarmi di loro e loro di me’. E un altro: ‘Condividere un sorriso’. Un altro ancora, semplicemente: ‘Ascoltarla’.
Alla fine della ricerca, una serie di brevi paragrafi con alcune osservazioni: La vicinanza a casa, le lamentele, la mancanza di una vita sessuale, il ‘dopo’, il senso della famiglia. E poi le conclusioni, con in evidenza i possibili effetti della deprivazione paterna, e alcune linee-guida per possibili interventi. E la richiesta di un Tavolo di lavoro e riflessione sullo specifico problema del rapporto padre-figli nelle carceri italiane.