Nello scorso numero di ISP notizie, tra le “Notizie in breve”, abbiamo riportato una interessante sentenza del Tribunale di Castrovillari a proposito di alienazione parentale, precisando (il notiziario era in chiusura) che saremmo tornati sulla pronuncia con maggiori dettagli.
La vicenda si svolge in Calabria e ha inizio con la separazione, dopo una convivenza more uxorio, nella quale i due figli minori sono “collocati” presso la madre. Dopo qualche tempo il padre agisce in giudizio sostenendo che la madre si sta adoperando per ottenere l’allontanamento affettivo dei figli da lui. Il Tribunale dispone una CTU (Consulenza Tecnica di Ufficio) e lo psicologo incaricato riscontra – testualmente – una situazione di “alienazione parentale” posta in essere dalla madre nei confronti del padre in danno dei figli. La donna – secondo il perito – induce immotivatamente nei figli la convinzione che il padre sia un uomo malvagio e violento e li ha convinti a considerare loro padre l’uomo che ha sposato e dal quale ha avuto un figlio.
Dopo ripetuti incontri, lo psicologo ravvisa che il caso “presenta le dinamiche disfunzionali di un complesso processo psicologico di alienazione parentale” e mette in luce che i figli “stanno vivendo una situazione di grave pregiudizio per la loro salute, subendo un significativo condizionamento psicologico al fine di cancellare e sostituire la figura paterna con quella del marito della Sig.ra” (la donna nel frattempo si è sposata ed ha avuto un altro figlio). Il perito aggiunge che la madre “ha indotto nei bambini l’idea di un padre dannoso e violento” e che essi riconoscono come loro padre il marito della donna. Drastiche, pertanto, le proposte che egli formula ai giudici, fra le quali: immediata inversione di collocamento con affidamento “super-esclusivo” al padre; sospensione di ogni contatto con la madre per tre mesi, poi solo contatti telefonici per altri tre mesi; trattamento psicologico per i figli.
Il Tribunale, pur condividendo le osservazioni del perito sulla alienazione parentale, ritiene che queste misure possano essere traumatiche proprio per la forte avversione (immotivata, preciseranno i giudici) che i bambini hanno sviluppato nei confronti del padre (per fare un esempio lo chiamano “mostro”) e sceglie una soluzione che definiscono “interlocutoria”: affidamento dei minori al Consultorio Familiare di Corigliano Calabro, ferma restando la collocazione dei minori presso la madre. Il consultorio è incaricato di operare per il riavvicinamento dei bambini al padre, stabilendo un calendario di incontri del padre con i bambini.
Purtroppo, ogni tentativo fallisce a causa del comportamento “oppositivo – o, per lo meno, non collaborativo” – della donna e per la sua “assenza di disponibilità”. Tanto che gli assistenti sociali ritengono “non opportuno proseguire con la strategia del graduale riavvicinamento, paradossalmente tramutatosi in allontanamento”. A questo punto anche il Consultorio consiglia “l’immediato inserimento dei minori nel contesto familiare paterno senza intermediazioni”, ma i giudici, ancora una volta, optano per una diversa soluzione, più soft, e affidano i bambini ad una Casa Famiglia di Cosenza, recidendo temporaneamente il rapporto con la madre.
Già dopo pochi mesi di incontri con il padre gli operatori constatano il progressivo superamento della ostilità verso il genitore, i cui incontri e le cui telefonate quotidiane sono ora accolti con piacere e trepidazione. Dopo circa nove mesi il Consultorio affidatario ritiene che il percorso di recupero del rapporto padre-figli sia terminato e conclude per “la validità dell’affidamento esclusivo al padre”. A questo punto i giudici (che nel decreto parlano di “resurrezione del padre” e di “gabbia psicologica” realizzata dalla madre) osservano che “l’acclarato riavvicinamento dei figli al padre a seguito della loro avulsione dall’influenza psicologica materna dimostra a posteriori la validità della formulata ipotesi di alienazione parentale”. Nonostante le chiarissime valutazioni del Consultorio, la madre chiede di prolungare la permanenza dei figli nella Casa Famiglia per ulteriori accertamenti, richiesta nella quale il Tribunale vede “il reale proposito di ritardare (…) il consolidamento del recuperato rapporto affettivo del padre con i figli” e la prosecuzione dell’intento alienante. Pertanto esso decide per l’affidamento dei minori al padre “in modalità super esclusiva”, auspica un supporto terapeutico per la madre e naturalmente stabilisce per questa l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli. Decide anche che gli incontri tra madre e figli possano riprendere solo nell’ottobre 2020 (il decreto è stato emesso il 30 giugno 2020) con la mediazione del Consultorio Familiare del Comune di residenza del padre e secondo le modalità da questo stabilite.
Per inciso, nella vicenda sono entrati anche i nonni, a vario titolo. Nel senso che i nonni e i familiari della linea paterna (come regolarmente accade in questi casi) sono stati esclusi dalla vita dei bambini, mentre la nonna materna ha chiesto l’affidamento dei nipoti e il collocamento presso di lei, richiesta che i giudici non hanno tenuto in alcun conto ritenendo fra l’altro che vi fosse stata una sua “probabile corresponsabilità” nel determinare la alienazione parentale.
Il decreto del Tribunale è interessante sotto molti aspetti. Qui basti rilevare come la nozione di “alienazione parentale” sia adottata con naturalezza sia dai giudici del Tribunale che dal perito psicologo. Evidentemente essi se ne sono serviti semplicemente per indicare una situazione di fatto abbastanza definibile e connotabile, a prescindere dalla annosa – e sterile – querelle se la PAS (Parental Alienation Syndrome) possa considerarsi o meno “sindrome” in senso medico-scientifico. Al di là delle etichette, hanno considerato obiettivamente che c’era un condizionamento psicologico nei confronti dei figli, ingiusto ma soprattutto dannoso per il loro equilibrio. E doverosamente hanno cercato di porvi rimedio. E’ un comportamento che risponde in pieno a quella sentenza della Corte di Cassazione che il nostro Istituto considera un punto fermo (di logica e di buon senso, prima ancora di diritto) e che più volte abbiamo ricordato: la n. 6919 del 2016 nella quale i supremi giudici osservarono che al di là della validità o invalidità delle teorie scientifiche, quando un genitore pone in atto comportamenti che sono denunciati come volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore (magari indicati dal denunciante come significativi di una PAS) “il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti (…) a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia”.
Per la verità sullo stesso argomento la Suprema Corte, in successive pronunce, non ha manifestato lo stesso equilibrio e la stessa chiarezza, alimentando purtroppo la ripresa di dubbi e polemiche fra sostenitori e negazionisti della PAS. A quella sentenza, tuttavia, continuano spesso a rifarsi i giudici di merito, come dimostra il decreto che abbiamo in breve illustrato. Fra i Tribunali che hanno mostrato di sposare questa linea possiamo citare quello di Brescia, che in più occasioni si è espresso nel senso da noi auspicato. Basteranno, per questo Trubunale, due esempi: l’ordinanza nella causa civile n. 2016 del 2018 (“al di là delle questioni circa il consenso della comunità scientifica in ordine alla Sindrome da Alienazione Parentale, è del tutto evidente che la grave situazione in cui versa X, connotata da una sostanziale elisione della figura paterna, richiede di essere affrontata e risolta con urgenza, onde evitare che evolva verso l’irreversibilità”) e quella 815 del 2019 nella quale si evidenziano i sintomi ai quali può essere ricondotta una PAS, secondo quanto illustrato nella sua perizia dal CTU con condivisione – si noti – di entrambi i CTP (Consulenti Tecnici di Parte).
Insomma, sembrerebbe potersi affermare – così scrive l’avv. Marta De Santis con ottima sintesi– che “il punto di approdo della più recente giurisprudenza di merito e di legittimità sia quello di considerare la cd. PAS non come una patologia da indagare clinicamente, ma come una serie di condotte rilevanti per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale, idonee a creare nel figlio un grave fattore di rischio evolutivo per il suo sviluppo psicoaffettivo, se non un vero e proprio disturbo individuale”. (M. Q.)