di Gianluca Aresta *
Con la recente e nota sentenza n. 11504 del 10/5/2017, la Suprema Corte ha sostanzialmente abbandonato, ritenendolo antistorico, il principio del (precedente) “tenore di vita” per la determinazione dell’assegno di mantenimento all’ex coniuge; criterio – questo – previsto dall’art. 155 cod. civ., così come modificato dalla L. 54/2006 che per lungo tempo ha guidato la mano dei Giudici nella redazione delle sentenze di divorzio ed anche di quelle di separazione.
La novità in questione è stata, poi, consacrata da due successive pronunce, la n. 12196 del 26/5/2017 (seppur resa in un giudizio di separazione) e la n. 11538 dell’11/5/2017.
Le tre sentenze hanno fotografato il principio per cui, nella necessità di individuare un parametro diverso dal “tenore di vita” cui rapportare il giudizio sull’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla possibilità-impossibilità per ragioni oggettive dello stesso di procurarseli, tale parametro di riferimento andrebbe individuato nel raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è economicamente indipendente, o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Il dibattito, il confronto, anche interpretativo, che è seguito alla pubblicazione delle sentenze in questione è stato (ed è) quanto mai attuale, acceso, fervido, stimolante e oltremodo interessante… così come, d’altro canto, sembra altrettanto “curiosa” la scia di pronunce che sono seguite alle “innovative” (ma lo saranno davvero?) sentenze della Suprema Corte di Cassazione.
La Corte di Appello di Genova, con la sentenza 106/2017, pubblicata in data 12/10/2017, ha statuito che: “Non è detto, quindi, che in caso di divorzio l’ex coniuge che lavori non abbia, in via assoluta, diritto a un assegno divorzile, ma occorre valutare la necessità di una eventuale integrazione del suo reddito alla luce dei concreti oneri che lo stesso debba sostenere, tenendo conto del suo lavoro, del suo patrimonio, della sua salute e della sua collocazione nella società”.
Rimarca la Corte d’Appello, suggerendo una applicazione “prudente” dei nuovi criteri indicati dalla Corte di Cassazione, che quello dell’autosufficienza economica non costituisce un parametro/limite uguale per tutti, in quanto può, nel concreto, variare per aree geografiche, per specifiche e peculiari situazioni familiari, per condizioni sociali.
“Si tratta” – ha spiegato, in relazione alla pronuncia della Corte d’Appello di Genova, l’Avv. Liana Maggiano, presidente dell’AIAF Liguria – “di una sentenza di grande valore, che apre la linea interpretativa ligure della sentenza della Cassazione. Una sentenza che, pur penalizzando le cosiddette ‘rendite parassitarie’, restituisce dignità e decoro a quelle donne che lavorano, sono mogli e madri e salvaguarda e riconosce i diritti della personalità e della vita umana, in linea con il dettato delle convenzioni internazionali vigenti”.
Sempre sulla scia argomentativa delle tre sentenze della Suprema Corte, appare oltremodo interessante la statuizione del Tribunale di Roma n. 16887 dell’11/9/2017, con cui il Tribunale, pur condividendo i principi stabiliti dalle recenti sentenze della Corte di Cassazione, ritiene che questi debbano essere integrati con ulteriori considerazioni, che rappresentino un “effettivo adattamento dell’istituto dell’assegno divorzile alle peculiarità delle diverse realtà familiari”.
Nel caso di specie, non si tratta, come ha sottolineato il Collegio, di ricondurre il tenore di vita dell’ex moglie agli standard di vita precedenti, bensì di evitare che la resistente, a causa del contributo effettivamente fornito al menage coniugale, si trovi nella difficoltà di mantenere, ad esempio, una soluzione abitativa adeguata al proprio livello professionale e sociale; pertanto, il Tribunale di Roma riconosce, in favore della richiedente, il diritto di percepire un assegno divorzile posto a carico dell’ex marito, ritenendo tale soluzione adeguata ad assicurare, in concreto, il giusto assetto post matrimoniale, proprio nel rispetto delle linee guida tracciate dal Giudice di legittimità.
Il richiamo – tanto “fugace”, nella presente sede, e apparentemente superficiale, quanto auspicabilmente prodromico alla apertura di un dibattito e di un confronto sul tema proposto – delle innanzi citate pronunce se, da un lato, non vuole certo avere pretese di esaustività e completezza in ordine a tutti i profili di discussione che il tema principale meriterebbe (e meriterà), dall’altro vorrebbe stimolare una riflessione proprio sui diversi “criteri” di determinazione dell’assegno divorzile (rectius, sui diversi modi di “indossare” quell’abito proposto dalla Corte di Cassazione) che sono emersi dalle recentissime statuizioni, parallele alle tre sentenze della Suprema Corte, su cui si è voluto soffermare l’attenzione.
Proprio sulla scorta degli spunti di riflessione offerti da tali statuizioni, sarebbe opportuno (e forse giusto) chiedersi se l’entusiasmo con cui sono state accolte le sentenze della Suprema Corte che hanno ridisegnato il riferimento al “precedente tenore di vita matrimoniale” come presupposto per la concessione e per la determinazione dell’assegno divorzile sia stato davvero giustificato e, soprattutto, se effettivamente sia stato rivelatore di un segnale di ammodernamento del nostro tessuto sociale ad opera della giurisprudenza.
Mentre, allora, si cerca di dare una risposta compiuta a tale dubbio, scavando nella memoria, pur nella consapevolezza di aver momentaneamente trascurato l’oceano giurisprudenziale enucleatosi nella materia di cui si parla, viene a mente che “appena” 27 anni fa la Suprema Corte, con la sentenza n. 1652 del 2/3/1990, affermava, in relazione al criterio di determinazione dell’assegno divorzile, come il parametro di riferimento del giudizio di adeguatezza fosse un “modello di vita dignitoso”, concetto evidentemente quanto meno sovrapponibile a quella “autonomia economica” che hanno voluto affermare le recentissime sentenze della Suprema Corte e, in particolare, la sentenza n. 11538 dell’11/5/2017.
Nella motivazione della (apparentemente) datata pronuncia della Corte di Cassazione, si legge testualmente: “E’, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente che, nella filosofia della riforma, assume un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge sarà tenuto ad ‘aiutarlo’ solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio. Se è vero, pertanto, che la legge non fornisce la nozione di ‘mezzi adeguati’ e impone, perciò, all’interprete di individuare il parametro dell’adeguatezza, la ricerca di quest’ultimo non può risolversi, disattendendo le finalità della nuova normativa, nel congelamento del pregresso tenore di vita matrimoniale, ma, muovendosi all’interno dell’opzione legislativa a favore del criterio assistenziale, deve, prima di tutto, tendere ad accertarne il presupposto, costituito dalla impossibilità del richiedente di condurre, con i propri mezzi, un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa: conformata, cioè, in quel modo cui, nella materia, il concetto di adeguatezza rinvia e della quale, quindi, un’esistenza così strutturata si porge, nell’ottica assistenzialistica della riforma, come il referente più appropriato, da apprezzare alla stregua delle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, nè bloccato alla soglia della pura sopravvivenza, nè eccedente il livello della normalità, …”.
Ebbene, non sorprenda se già 27 anni orsono la Suprema Corte sottolineava la necessità di aderire, da un lato, ad una ricostruzione del sistema che non lasciasse spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale definitivamente estinto – e, se fosse stato vero il contrario, patrimonialmente indissolubile – e in grado di soddisfare, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovano nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice.
Già nel 1990, allora, la Suprema Corte liberava la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche che, dando per acquisite e fornite di ultrattività posizioni, molte volte, di “pura rendita”, oltre a stravolgere l’essenza del matrimonio, ne possono, paradossalmente, proprio favorire la disgregazione, privilegiando, nel momento attributivo, la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno ed eliminando, con ciò, dal sistema quell’elemento di disturbo introdotto dal “diritto vivente”, mediante l’attribuzione al coniuge debole dello stesso trattamento da lui goduto in costanza di matrimonio.
E allora le tre sentenze della Suprema Corte si pongono nel segno della novità o della continuità?
Le argomentazioni, limpide nella loro chiarezza espositiva, della motivazione di una sentenza “vecchia” di 27 anni impongono una riflessione sulla reale natura innovativa dei principi sacralizzati da ultimo dalla Suprema Corte nelle sentenze del 2017.
Forse restano condivisibili, a parere di chi scrive, le considerazioni dell’Avv. Maria Grazia Masella che ha avuto modo di sottolineare, ritenendo che si sia trattato di un classico “tanto rumore per nulla”, come “al più si tratta di una sentenza chiarificatrice che puntualizza i criteri di previsione dell’assegno divorzile, ma nulla di più” (in ISP notizie n. 1/2017, “Divorzio: addio al tenore di vita precedente”).
In concreto, quali sono i criteri per la concessione dell’assegno divorzile? Quando ricorrono i presupposti per la concessione dell’assegno divorzile? Forse prima di affidarsi ad interpretazioni (o a supporti) giurisprudenziali, sicuramente di comodo per l’interprete nel quotidiano, sarebbe opportuno trovare soccorso (e risposte) nel dettato normativo, che, a parere di chi scrive, già offre (come sempre) un profilo assolutamente delineato dei criteri cui debba ispirarsi la eventuale concessione dell’assegno divorzile; profilo che non sembra essere stato per nulla scalfito, nella sua struttura, dalle ultime pronunce della Suprema Corte, tracciate nel solco di una continuità di principi già affermati nel tempo.
* Avvocato. ISP Bari