di Silvana Bisogni *
L’emigrazione è un fenomeno che ha tanti anni quanto ne hanno gli uomini. Da sempre gruppi di uomini, donne, bambini e animali al seguito si sono spostati da una terra all’altra, e poi da un Paese all’altro, in cerca di migliori condizioni di vita, di cibo, di luoghi sicuri in cui vivere. Ne parlano molto anche gli scritti più antichi e non è un caso se certe ondate migratorie sono state definite “bibliche”.
L’Italia, terra di emigranti, è divenuta una terra di accoglienza e, soprattutto, di passaggio, per migliaia di persone che arrivano da Paesi lontani per cercare rifugio da guerre e catastrofi o in cerca di un lavoro più duraturo e consistente rispetto alla situazione della propria terra di origine. In Italia l’immigrazione è iniziata in sordina negli anni ‘60 (le donne somale ed eritree che venivano come domestiche, i pescatori tunisini arrivati in Sicilia……), fino all’improvvisa esplosione del 1991 quando in pochissimi giorni arrivarono a migliaia dall’Albania. Da allora il flusso non si è mai fermato ed ha conosciuto canali diversi (via mare sui barconi a Lampedusa, via terra per treno, attraverso i labili confini dei vari Paesi europei, in aereo, a piedi, in pullmann), modalità diverse (ingresso regolare secondo le norme italiane, clandestinamente, per supposti motivi di studio o di turismo) suscitando reazioni contrastanti, tra accoglienza e solidarietà e rifiuto e contrasto.
Il 2015 sarà ricordato come l’anno in cui la questione dell’accoglienza in Europa di rifugiati richiedenti asilo provenienti da zone di guerre (in primis Siria e Afghanistan) e da Paesi con gravissime problematiche di tensioni etniche, religiose ed economiche, oltre agli immigrati “economici”, per lo più clandestini, ha assunto dimensioni gigantesche, soprattutto verso l’Europa: centinaia di migliaia di persone senza più nulla, in cerca di una nuova vita, di una speranza di futuro per sé e per le proprie famiglie, dirette con mezzi di fortuna, verso i Paesi più ricchi e meglio organizzati in tema di welfare, verso i Paesi nordici.
Peraltro lo spostamento di una così gran massa di persone ha dato vita anche al fiorire di attività criminose, quali lo sfruttamento della disperazione in termini di arricchimento immediato, senza scrupoli, per il costo del passaggio (barcone, auto, pullmann, camion, ecc.) verso lidi più sicuri, senza alcuna sicurezza sui mezzi e sui metodi di trasporto, che hanno provocato migliaia di morti.
L’Europa è stata colta impreparata al fenomeno e sta cercando faticosamente vie di soluzione, divisa tra solidarietà, accoglienza e rispetto delle norme.
Il fenomeno è stato invece colto subito dai media, ma nella sua forma più emotiva e spettacolare, più che per la complessità dei problemi posti. Per giorni e giorni su tutti i media c’è stato un martellamento di notizie e immagini sulla marea di persone in movimento verso le coste e sulle strade europee, con la narrazione di scelte politiche, vicende personali, storie offerte all’attenzione dei lettori e degli spettatori, non sempre per motivi di solidarietà, ma spesso anche come elemento emotivo di contrasto e contenimento, fino alla denuncia di invasione e accerchiamento.
Pur nell’elevato numero di morti e di dispersi che il fenomeno ha provocato, un caso emblematico è quello del piccolo Aylan Kurdi, di tre anni, affogato durante un drammatico affondamento di un barcone che avrebbe dovuto portarlo all’isola di Kos, in Grecia, ma andato distrutto davanti alla spiaggia di Budrum, in Turchia.
La storia è rimbalzata su tutte le testate giornalistiche, nel mondo, soprattutto per l’immagine, tenera e tragica, del corpicino del bambino riverso sulla battigia, lambito dalle onde del mare. Un poliziotto turco lo ha raccolto con delicatezza e con grande senso di pietà, per sottrarlo a quanti erano impegnati a fotografarlo o a filmare la scena.
Insieme a piccolo Aylan sono morte altre 12 persone, di cui tre bambini. Uno era suo fratello Galip, 5 anni; tra i morti anche la loro mamma. Per giorni e giorni sui media si sono alternate le foto del piccolo da vivo, accanto al fratello, e poi da morto, sulla spiaggia, le foto del padre disperato e quelle del funerale, interviste ai parenti (pochissimi i riferimenti alla madre, anch’essa morta con i figli).
Tutti presi da questa vicenda assurta a simbolo del dramma dei fuggiaschi, non molti hanno dato importanza ad una notizia che, seppur data, ha avuto un ruolo residuale: il padre disperato in realtà era lo scafista del barcone affondato. La nostra inquietudine nasce proprio dal doppio ruolo di questo padre. Da un lato è il capofamiglia che fugge con i suoi figli e la moglie per raggiungere lidi più sicuri ed è colpito dalla più spietata delle tragedie; dall’altra è l’uomo che, come tanti altri, che hanno suscitato la nostra indignazione per il “commercio” di uomini, ha provocato con la sua imperizia e indifferenza ai pericoli connessi alla sua azione, la morte di altre persone tra cui i propri figli e altri bambini.
Ci sono numerose testimonianze a suo carico: ha effettivamente guidato il barcone, ma in stato di ubriachezza, a velocità eccessiva per la dimensione del barcone e per il carico abnorme che conteneva. Peraltro, egli stesso, ha confermato il ruolo svolto nella vicenda, anche se ha dato versioni contrastanti: dapprima ha ammesso di essere lo scafista, poi ha detto di aver preso il posto del vero scafista fuggito. Ma ha sempre sostenuto il suo stato di padre disperato (anche se non ha mai parlato di marito disperato). A suscitare ulteriori dubbi sulla sua condotta il fatto di essere immediatamente rientrato in Siria, ufficialmente per seppellire i suoi morti, ma – sospettano in molti – per sfuggire alla cattura per il suo ruolo di scafista.
Ora che l’episodio è sfumato dal circuito mediatico e di Aylan si parla sempre meno, ci poniamo una domanda: come può essere giudicato il padre di Aylan, ammesso che lo si voglia fare?
E’ un solo uomo che ha perso la sua famiglia e il suo dolore spinge ad attenuare le sue colpe e le sue responsabilità come scafista?
Oppure, nonostante la tragedia che lo ha colpito, resta comunque un uomo che deve essere giudicato come gli altri scafisti, che, quando catturati, sono sottoposti a processo e condannati?
E poi, indipendentemente dall’aspetto giudiziario, quale è la sua personale responsabilità per la morte di altre persone, per lo più famiglie con bambini, proprio come la sua?
Difficile esprimere un’opinione: resta il fatto che si è di fronte ad una persona che mostra un duplice aspetto di sé: padre e scafista, dolore e cinismo.
* Sociologa della famiglia. ISP Roma