L’indagine “Paternità e smart working”, svolta dall’I.S.P. e pubblicata di recente, ha messo in luce molteplici aspetti legati alla pandemia ed evidenziati nel testo della ricerca, pubblicata in questo stesso sito. Alcuni di essi meritano una ulteriore riflessione e un ampliamento, con l’aggiunta di informazioni che non potevano trovare spazio in quel testo. E’ il caso delle conseguenze della pandemia e della forzata “reclusione” domestica sui bambini e adolescenti. Conseguenze che si vanno valutando a posteriori, con esiti sconfortanti.
Tra le 15 domande del questionario I.S.P. una verteva espressamente su questo aspetto; in essa si chiedeva al padre se aveva notato nei figli “uno stato di disagio, di sofferenza, attribuibile alla pandemia” e, in caso di risposta affermativa, di spiegare come esso si era manifestato. Questa è stata una delle domande che più ha suscitato risposte dettagliate. Risposte dalle quali trasparivano evidenti la preoccupazione del genitore ed un senso di dolorosa impotenza. Sapevamo, da precedenti e più ampie ricerche, che la perdita di rapporti sociali e lo stravolgimento delle abitudini di vita stavano danneggiando bambini e ragazzi, ma ugualmente le risposte dei “nostri” padri ci hanno colpiti. Ricordiamo, in breve, che il 72% dei padri intervistati (oltre due padri su tre) ha risposto affermativamente alla domanda e che in tre casi la risposta negativa era legata al fatto che i bambini erano molto piccoli e quindi meno sensibili (anche se non del tutto) agli effetti del lockdown. Gli esiti negativi raccontati sono stati di varia entità: da stati di nervosismo, ansia, lieve depressione, sensazione di solitudine a forti stati di stress, crisi violente di pianto… E poi reazioni di tipo psicosomatico, episodi regressivi, tic nervosi… In almeno un caso è stato necessario un sostegno piscologico.
L’ISTAT ha fotografato questo stato di cose con un dato sconcertante: fra il 2019 e il 2021 il numero di adolescenti che hanno manifestato un disagio esistenziale e mentale è praticamente raddoppiato: dal 3,2 % al 6,2 del totale. Se l’Istat fornisce il dato numerico, psicologi e psicoanalisti cercano di indagare cause ed effetti. Gustavo Pietropolli Charmet, che per molti anni è stato docente di Psicologia e Pischiatria nelle università Statale e Bicocca di Milano e che su questo argomento ha appena pubblicato un libro, Gioventù rubata (Rizzoli), in una intervista al Venerdì di Repubblica ammette: “Siamo stati colti impreparati: non ci aspettavamo che lockdown e didattica a distanza (Dad) avessero conseguenze così gravi. Ora dobbiamo comprendere le ragioni di questa risposta patologica, per evitare di ripetere in futuro gli stessi errori”.
Punto centrale della riflessione di Pietropolli Charmet la fragilità di queste generazioni, fragilità dovuta al “non essere stati educati a tollerare i rovesci che la vita inevitabilmente infligge”. Adolescenti ai quali è stato assicurato “una sorta di diritto alla libertà, al successo, alla popolarità, all’eleganza e alla bellezza” si sono trovati di colpo di fronte a un evento “mortifero” che ha fatto perdere loro importanti punti di riferimento in una fase della vita in cui è particolarmente importante uscire dal recinto familiare. Alla incapacità – spesso indotta dai genitori – di tollerare la perdita, l’insuccesso, il fallimento, aggiungerei il fatto che queste generazioni alle quali nessuno ha insegnato ad affrontare sacrificio o delusione (stiamo generalizzando, è evidente) e che inseguono un futuro patinato con poche salite e molte discese si sono trovate improvvisamente isolate dagli altri, chiuse con se stesse. Ma essere soli con se stessi non è cosa alla quale i giovani di oggi siano abituati. Basta vedere il maniacale rapporto che essi hanno con il cellulare e la necessità di essere sempre ed ovunque connessi: con gli amici, con i social, con le Rete… La comunicazione intersoggettiva nell’infanzia e nell’adolescenza, lo sappiamo, è di fondamentale importanza: non solo e non tanto quella tramite social, ma quella vera, intercorporea, fisica, della vicinanza, fatta di sguardi, voci, posture… Se questa viene a mancare insorge il senso di insicurezza, di abbandono, di solitudine, di vera e propria angoscia. Anche il fatto – è di nuovo la riflessione di Pietropolli Charmet – che genitori e insegnanti evitino di solito di parlare di argomenti scomodi, come la morte ma anche come il semplice insuccesso, ha reso i giovani totalmente impreparati a questo gravoso sacrificio.
Certo, l’infanzia e l’adolescenza di tempi passati dovevano confrontarsi con periodica ciclicità con la povertà, con le malattie, con le guerre… Eventi molto gravi e rischiosi, ma vi erano in qualche modo preparate psicologicamente. Oggi sappiamo che l’adolescenza si protrae in modo innaturale fra le mura domestiche e che i genitori tendono ad evitare qualsiasi motivo di conflitto con i figli, risolvere loro ogni problema, allontanare ogni possibile delusione, insuccesso, ostacolo.
Pietropolli Charmet definisce “provvidenziale” la Dad, la didattica a distanza, ma aggiunge che questa si è rivelata “un surrogato molto scarso della scuola in presenza”. Ha funzionato per gli universitari ma non per gli studenti più giovani, e bisognerà capire perché. Fra i padri da noi intervistati c’erano alcuni insegnanti e tutti hanno definito “disastrosa” l’esperienza della Dad. E del resto, da una ricerca svolta su 5.000 studenti delle scuole superiori del Lazio è risultato che il 76% dei ragazzi era annoiato e non stimolato durante le lezioni virtuali, mentre il 69% faticava a recepire le nozioni così impartite (ricerca “Chiedimi come sto” promossa da Rete degli studenti medi, Unione degli universitari e Spi-Cgil. Dati relativi al Lazio. la Repubblica, 20 maggio 2022). Di più: secondo alcune ricerche l’insegnamento online ha causato una perdita dell’apprendimento del 35%.
Un importante studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista Journal of Affective Disorders, consistente in oltre 55 mila interviste effettuate dal 2018 al 2020 ha mostrato un incremento fino all’8,2 % dei sintomi depressivi soprattutto nei giovani nella fascia d’età 18-34 anni, con una fluttuazione legata alla revoca o al ripristino dei provvedimenti restrittivi. Proprio loro, i giovani, che prima della pandemia risultavano essere un gruppo a minor rischio di depressione.
Un “profondo senso di angoscia costante e di incertezza per il futuro” nei giovani durante il lockdown è stato rilevato anche dal Centro Psico Sociale dell’Ospedale Niguarda di Milano, con effetti sulla qualità del sonno, con difficoltà di concentrazione (specie nei più piccoli) e, ancora, sintomi depressivi negli adolescenti e, nei casi più gravi, atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, anoressia. Il CPS del Niguarda, inoltre, sottolinea l’aumento di dipendenze comportamentali, quali il gioco d’azzardo, i videogiochi, la pornografia online. Una forte dipendenza dai social è emersa evidente anche dalla ricerca dell’I.S.P.: molti padri hanno osservato con preoccupazione l’eccessivo ricorso al telefonino, al tablet, al PC, con chat continue e videogiochi.
Da tutto questo dovremmo pure trarre delle conseguenze. Gli adulti non erano preparati a sostenere i più giovani: genitori, insegnanti (e medici, e politici, naturalmente) si sono trovati spiazzati essi stessi. E forse davvero “i giovani” – come afferma Simona Barbera, responsabile del CPS del Niguarda – “sono stati dimenticati come categoria”, oltreché “colpevolizzati come se la responsabilità dell’aumento dei contagi fosse esclusivamente loro”. Ora dobbiamo tenere d’occhio questi bambini e questi adolescenti, non tirare un respiro di sollievo e disinteressarcene perché il Covid sembra aver allentato la stretta. Dobbiamo capire che tracce ha lasciato questa esperienza e aumentare le azioni di sostegno e di accogliernza. Perché se il virus ha lasciato talora tracce evidenti e prolungate nel corpo (il cosiddetto Long Covid) altre può averne lasciate nella mente e nell’animo dei nostri bambini e ragazzi, compromettendone il sereno ed equilibrato sviluppo. (M.Q.)