Sui media, almeno su quelli italiani, non ha avuto alcuna risonanza l’approvazione della Risoluzione del Parlamento europeo sulla riduzione delle percentuali di senzatetto nell’UE (2020/2802(RSP), pubblicata il 24 novembre 2020 e seguita, il 4 marzo scorso, dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Eppure la notizia avrebbe dovuto suscitare una maggiore attenzione per la gravità del tema: nel 2019 circa 91 milioni di persone sono stati dichiarati a rischio di povertà o di esclusione sociale nell’UE- L’ambizioso obiettivo sociale di Europa 2020, ossia una riduzione di 20 milioni di persone, non è stato raggiunto.
Nella presentazione della Risoluzione è stato ricordato che ogni notte sono 700mila le persone che dormono per strada in Europa: negli ultimi 10 anni la cifra è aumentata del 70%. Anche l’OCSE, nel marzo 2020, ha pubblicato dati riferiti agli homeless riportando informazioni molto interessanti sulla loro consistenza numerica nei Paesi membri dell’Organizzazione, e rivelando situazioni poco conosciute. Colpiscono i dati di alcuni Paesi: a parte i 552.830 homeless negli Stati Uniti (dato abbastanza diffuso), appaiono sorprendenti i dati della Germania (337.000), della Francia (141.000), dell’Au-stralia (116.427), del Canada (129.127), del Brasile (101.854), mentre Irlanda del Nord, Scozia e Nuova Zelanda assumono il ruolo di Paesi con il più alto numero di homeless rispetto alla popolazione residente. Secondo l’ISTAT[1] in Italia i senza dimora sono in totale 50.724 e si tratta per l’85,7% di individui di sesso maschile.
Dunque parliamo di cittadini ridotti nella povertà estrema. Sono uomini e donne variamente denominati: homeless, ma anche roofless, no fixed adobe, san-abri clochard, thuis loos, hobo, tramp, in italiano comunemente chiamati “barboni” o, con termine burocratico, “senza fissa dimora”. In questi ultimi anni è notevolmente cresciuto l’uso di alcuni termini con cui vengono definiti i membri di questa categoria sociale: ultimi, emarginati, invisibili. Termini ampiamente utilizzati nel linguaggio giornalistico, e non solo, per sintesi, ma anche per incapacità, spesso, di definire altrimenti persone che vivono in modo profondamente drammatico la loro esistenza. Su di loro solo in alcuni casi si abbassa lo sguardo distratto o indifferente, talora con un velo di pietà, talvolta con evidente atteggiamento critico o di rifiuto. Ma si tratta di una realtà drammatica e inquietante che merita attenzione e interventi mirati.
Contrariamente a quanto si pensi, il fenomeno non è realtà esclusiva della società contemporanea. Le persone senza fissa dimora sono sempre state nelle realtà storiche. La loro presenza si perde nei secoli ed ha dato luogo a interventi molto diversi tra loro, con esiti altrettanto diversi, anche se nessuno ha nel concreto risolto alla radice il problema. Fin dall’antichità, la povertà assoluta è sempre stata connessa al principio di proprietà e di lavoro: dagli Egizi ad Israele, dalla Grecia alla Roma repubblicana e imperiale, dai primi Stati fino all’epoca più recente, moderna e contemporanea, la povertà e la mendicità hanno ruotato intorno alla capacità o meno degli individui di provvedere alle proprie condizioni di vita tramite il lavoro, tranne che per alcune fasce come le vedove, i bambini, i vecchi e gli infermi. Tutti gli altri non rientranti in questa specifica fascia e in condizione non lavorativa sono stati considerati oziosi, pericolosi per l’ordine sociale. Persino San Paolo usa parole sferzanti: “Quando eravamo da voi vi abbiamo sempre imposto questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi!” (2 Tessalonicesi 3,10). Ma a condizionare la vita dei poveri sono subentrati anche elementi di varia natura: etica, religiosa, politica, economica, ideologica, che hanno assunto approcci diversi nei secoli.
Anche avere spesso accomunato in una stessa categoria situazioni diverse (senza dimora, barboni, vagabondi, mendicanti) ha contribuito a creare confusione e indifferenza. E’ questo, dunque, un tema di grandissimo interesse che meriterebbe un approfondimento, ma che tuttavia non può rientrare in questo articolo, rimandando ad un’altra occasione una narrazione adeguata. Ci limitiamo, dunque, a illustrare la condizione dei “barboni” nella situazione attuale.
PER UNA DEFINIZIONE
Essere senza dimora non vuol dire solo e soltanto essere senza tetto ma essere senza una dimora in senso simbolico. Ad una persona senza dimora non manca una casa, manca “la casa”, il focolare, lo spazio domestico, ambiente di vita, un luogo privilegiato di di sviluppo di relazioni affettive.
Secondo FEANTSA (Fédération européenne d’associations nationales travaillant avec les sans-abri), il senza dimora è caratterizzato da disuguaglianza sociale, impossibilità a partecipare al benessere della società a causa di vincoli nell’inserimento sociale e lavorativo; mancanza di prospettive di modificare la propria situazione; mancanza di potere sui diritti di cittadinanza; mancanza di autonomia individuale; identità personale e sociale danneggiata. Nella definizione le persone senza dimora sono suddivise in tre categorie: le persone prive di qualsiasi sistemazione (no accomodation), le persone in sistemazione provvisoria nel settore pubblico o in quello del volontariato (temporary accomodation) e coloro che si trovano in sistemazioni abitative marginali fortemente sottostandard (marginal accomodation).
TIPOLOGIA DI BARBONI
Attualmente il problema ha una dimensione mondiale: non si tratta solo delle periferie delle metropoli, dove sono più evidenti, anche perché più numerosi, ma è un fenomeno che attraversa tutti i Paesi modulandosi in realtà molto diverse per cultura, composizione, genere, età, condizione. Ovunque il problema dei barboni si presenta come di difficile se non impossibile soluzione (nonostante alcuni progetti proposti a tal riguardo, ma poco conosciuti e divulgati). Si ha così l’impressione di assistere ad una globalizzazione dell’indifferenza.
E’ opportuno, prima di passare ad una analisi di dati statistici disponibili, evidenziare alcuni aspetti significativi.
- nel “nuovo nomadismo urbano” non ci sono solo il barbone-ribelle, il filosofo-tramp, il clochard-poeta, figure cantate con un velo di romanticismo in tanta letteratura: nella condizione di senza fissa dimora rientrano alcuni gruppi che ne hanno fatto una scelta personale di vita, come nel caso degli hobo3, gli schnorrer o i punkabbestia, che vivono la propria condizione come esperienza liberatrice, secondo uno stile di vita all’insegna della libertà, dell’anticonformismo, della rinuncia ai modelli di vita prevalenti[2]. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di individui di sesso maschile.
- vi è poi la categoria dei “rinunciatari”, tutti coloro per i quali la scelta di vivere per strada è tale sin dall’inizio, poiché, in molti casi, l’uomo sulla strada, anche se ridotto in tali condizioni per “eventi esterni”, rifugge, per particolari meccanismi psicologici, da un ritorno alla normalità ed è portato a considerare la sua situazione il frutto di una libera scelta. E’ definito un “adattamento per rinuncia”.
- Nei paesi dell’Asia orientale e meridionale la condizione di vagabondo è stata a lungo storicamente associata alla vita religiosa (indù, buddhista, giainista e dei musulmani sufi, oltre a sadhu, dervisci, monaci e Shramana).
- La cultura del gruppo etnico Rom, diffuso principalmente in Europa (nei Balcani, in Europa centrale e in Europa orientale), ha prevalentemente una caratteristica “nomade”. I “campi di sosta o di transito” sono in genere situati in aree degradate e isolate dalla città, sovraffollati, abitati da gruppi di diversa provenienza, veri e propri “spazi contenitori” sparsi soprattutto nelle periferie delle grandi città italiane, sotto i piloni di cavalcavia, in prossimità di linee ferroviarie, a ridosso di discariche o ai margini di aree verdi e si compongono di tende o abitazioni autocostruite, privi di servizi igienico-sanitari.
LE DIMENSIONI DEL FENOMENO IN ITALIA
Misurare la quantità di persone senza fissa dimora presenta una serie di ostacoli data la particolare natura del fenomeno. A partire dagli anni ’80 sono state svolte diverse indagini sull’universo delle persone senza fissa dimora ma tutte concordano sulla difficoltà della rilevazione e sulla consapevolezza di una sottorappresentazione della realtà. Peraltro, la rilevazione quantitativa finora è riservata per lo più ai soggetti che si rivolgono ai centri di assistenza, mense o dormitori, escludendo dal conteggio generale la componente di persone “sulla strada” che non si rivolge a tali agenzie, o che, pur rivolgendosi ai centri del territorio, non viene registrate come “senza dimora”.
Le fonti più recenti di dati sono costituite dalla seconda indagine sulle persone senza dimora, realizzata dal Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, insieme a ISTAT, CARITAS e Fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora), svolta su 158 Comuni italiani, selezionati in base alla loro ampiezza demografica. L’indagine stima in 50.724 le persone senza dimora in Italia (2,43 per mille della popolazione regolarmente iscritta nei Comuni considerati). Sostanzialmente stabile nelle regioni del Nord-ovest, del Centro e delle Isole, la quota dei senza dimora diminuisce nel Nord-est del Paese e aumenta al Sud. La Federazione italiana organismi persone senza dimora (Fio.PSD) e l’ISTAT concordano sulla distribuzione geografica in Italia: la città più colpita dal problema senzatetto è Milano, con più di 12.000 individui, Roma con quasi 8.000, Palermo con 3.000, Firenze circa 2.000, e Torino più di 1900.
In linea generale, rispetto al 2011[3], il numero dei servizi di mensa e accoglienza notturna è diminuito del 4,2% ma i servizi attivi erogano mensilmente più prestazioni (+15,4%, in particolare quelle relative ai servizi di mensa (+22%). Vengono anche confermate le principali caratteristiche delle persone senza dimora: si tratta per lo più di uomini (85,7%), stranieri (58,2%), con meno di 54 anni (75,8%), con basso titolo di studio (solo un terzo ha il diploma di scuola media superiore). Cresce rispetto al passato la percentuale di chi vive solo (da 72,9% a 76,5%), a svantaggio di chi vive con un partner o un figlio (dall’8% al 6%); poco più della metà (il 51%) dichiara di non essersi mai sposato.
INDICATORI
Gli indicatori disponibili, sia a livello internazionale, che nazionale, evidenziano una serie di fattori ricorrenti, una sorta di costanti, rinvenibili senza profonde differenze nei vari contesti nazionali, in quanto, probabilmente, strettamente connessi agli ultimi sviluppi economici e sociali:
- il progressivo allontanamento dalla realtà produttiva dei senza dimora, che nella maggioranza si collocano in fasce d’età attive;
- l’aumento del numero di persone completamente prive di abitazione e costrette a situazioni di emergenza[4];
- il generale abbassamento dell’età media dei soggetti senza dimora;
- la crescita della componente femminile;
- l’ aumento della quota dei soggetti senza dimora con problemi psichici come conseguenza della deistituzionalizzazione nel settore della psichiatria pubblica,;
- il cambiamento della componente etnica dell’universo dei senza dimora, con un crescente numero di soggetti appartenenti a minoranze etniche e comunità di immigrati da altri paesi di recente emigrazione;
- una consistente tendenza alla cronicità.
- Una nuova fascia di senza dimora, soprattutto in USA, i cosiddetti “homeless in cravatta”, lavoratori diventati homeless dopo la grave crisi del 2008, privi di risorse economiche, costretti a lasciare la casa e a dormire in qualche rifugio occasionale o per strada.
A tali caratteri generali del fenomeno, si aggiungono ulteriori elementi di specificità, peculiari del caso italiano
- una generale tendenza all’autoisolamento dei soggetti
- incompatibilità culturali,
- difficoltà strutturali di comunicazione,
- diffidenza e spesso aperta conflittualità
- forte correlazione statistica tra la presenza di esclusione abitativa, marginalità occupazionale e incidenza di malattie cronico-degenerative;
- una marginalità diffusa: la presenza dei senza dimora non è racchiusa in quartieri-ghetto, ma su tutto il territorio urbano, anche se sono abitualmente più frequentati alcuni luoghi.
- un maggior numero di single, separati, divorziati, vedovi;
- una maggiore presenza di fasce d’età centrali;
- un maggior ricorso a fonti irregolari o assistenziali;
- un minor uso di servizi
LA COMPONENTE DI GENERE
La condizione di senza dimora è un problema soprattutto maschile, anche se le ultime ricerche mostrano un certo incremento delle donne che vivono sulla strada.
Fino a qualche anno fa i senza fissa dimora maschili erano soggetti non entrati nel sistema delle garanzie lavorative, con trascorsi di marginalità professionale e carriere lavorative irregolari, mal retribuite e precarie. Attualmente si è evidenziata una presenza crescente di soggetti senza dimora che provengono da situazioni lavorative regolari, ma soggetti ad interruzioni anticipate delle attività professionali per gli uomini concentrate attorno alla soglia-rischio dei 40 anni, in assenza di adeguati strumenti di supporto economico. Si tratta quindi dello sviluppo della condizione di senza dimora per soggetti non appartenenti a gruppi sociali marginali. La perdita del lavoro ha conseguenze più pesanti per l’uomo, equivale a un completo fallimento del proprio progetto di vita: l’uomo disoccupato ha più difficoltà a conservare il suo posto nel focolare domestico. Vanno poi considerati gli effetti nei casi di rottura familiare: è quasi sempre la donna a conservare la vita domestica. Per converso la donna sulla strada è anche una donna i cui figli sono stati allontanati o sono stati affidati.
Inoltre, la fascia maschile sembra essere meno coinvolta in patologie di tipo psichiatrico, mentre risulta più elevato il rischio rispetto a traumatismi e fenomeni di dipendenza da sostanze psicotrope, in particolare alcool e tabacco.
Dai dati rilevati la presenza femminile è segnalata in modo difforme, a seconda delle rilevazioni: si va da un 9% ad un 18,2%, con varianti intermedie. Le donne senza dimora sviluppano “carriere di povertà” a partire dai 35 anni, più tardi rispetto agli uomini, con un’incidenza crescente fino ai 54 anni. Dopo il fenomeno sembra ridursi, in parte anche per la presa in carico dei servizi o l’ottenimento di una pensione.
Le donne senza dimora sono più presenti nei centri di assistenza genericamente orientati per adulti in difficoltà, piuttosto che nei centri specializzati per un’utenza di emarginati gravi, come gli asili notturni, gli ostelli, i dormitori, ecc. Accanto alle problematiche affettivo-relazionali, si collocano problemi anche sanitari, in quanto tra le donne è molto più elevata la presenza di patologie psichiche e a carattere degenerativo. Va sottolineato un particolare nella condizione delle donne senza dimora: nella quotidiana ricerca di sostegno economico con l’arte di “arrangiarsi”, è spesso riscontrata una qualche forma di prostituzione, per lo più occasionale.
Per quanto riguarda gli immigrati senza dimora sono, nella stragrande maggioranza dei casi, uomini soli, mentre per le immigrate in Italia appare evidente spesso la condizione di ricongiungimento familiare o una maggiore opportunità di lavoro connessa anche all’abitazione (ad es. le badanti)
Nella variabile “stato civile”, il dato ricorrente evidenzia la quota maggioritaria di soggetti celibi o nubili, secondo valori che in alcune situazioni giungono a sfiorare il 60%. Significativo anche il dato sul numero dei divorziati/separati: più del 25% dei senza dimora proviene da un’esperienza di perdita del nucleo familiare in seguito a vedovanza, separazione e divorzio, dato che risulta più elevato per le donne rispetto agli uomini. Ma risulta anche che il 57% è celibe o nubile. La distanza affettiva e relazionale da persone con le quali i soggetti hanno strutturato e mantenuto una relazione stabile (coniuge o famiglia) determina un handicap notevole nei successivi percorsi di uscita dalla grave emarginazione.
In Italia, l’età media dei soggetti senza dimora si colloca prevalentemente nelle fasce d’età centrali, quasi la metà dei senza fissa dimora ha un’età compresa tra i 28 ed i 47 anni e quasi due terzi hanno un’età tra i 18 e i 47 anni.
Il valore medio della componente anziana si colloca intorno al 9-10% dell’utenza registrata. Evidentemente la strada “privilegia” le componenti più giovani della marginalità sociale: la vita in strada debilita il corpo e la mente, lo stato di salute delle persone senza dimora; per cui è possibile prevedere che il basso tasso associato alla componente anziana sia strettamente legato alla ridotta aspettativa di vita dell’uomo “sulla strada”.
Rispetto al genere, l’universo maschile delle persone senza dimora ha un’età media più giovane rispetto alla componente femminile; in particolare circa l’80% dei senza dimora di sesso maschile ha meno di 34 anni, mentre per le donne tale quota si aggira intorno a valori del 50-55% sul totale.
Per la componente extracomunitaria è possibile riscontrare un’età che si attesta su valori di circa 34 anni. Appare chiaro, quindi, che le storie con le quali si finisce per vivere in strada sono diverse: nel caso degli italiani si tratta di un fallimento in età relativamente matura, mentre nel caso degli stranieri la condizione di senza dimora è chiaramente legata al percorso migratorio e, comunque, vissuto come una fase transitoria nello sviluppo del progetto migratorio.
Infine, un’ultima osservazione. I barboni di strada, individui costretti ad una condizione di povertà assoluta, per quanto possa apparire paradossale, non riescono a partecipare od ottenere forme di sostegno che potrebbero cambiare la situazione. La mancanza di residenza o domicilio, spesso la mancanza di documenti, non consente loro, infatti, di richiedere, ad esempio, il reddito di cittadinanza, assistenza medica che non sia quella di emergenza, aiuti e sostegni da parte dei servizi sociali. Spesso non risultano iscritti nelle liste dei cittadini del luogo in cui “vivono”. Sono davvero invisibili, se non proprio inesistenti.
BARBONISMO DOMESTICO
La narrazione sul fenomeno del barbonismo si arricchisce di un altro elemento di riflessione: si tratta del barbonismo domestico. Contrariamente al barbonismo di strada, i “barboni domestici” vivono una condizione profondamente diversa: non sono cittadini in povertà estrema, hanno la disponibilità di un casa (casa di proprietà, il 51%, 15% locatari presso alloggi di edilizia popolare o di enti e il 25% da privati), godono di supporti economici (pensioni di vecchiaia, pensioni sociali, pensioni di reversibilità), possono richiedere forme di assistenza sanitaria (anche l’assistenza medica domiciliare), possono ottenere aiuti e sostegni anche economici riservati agli anziani, previsti dal sistema del welfare. Potrebbero quindi avere una esistenza modesta, ma comunque dignitosa. Non possono essere identificati con una condizione di povertà economica. Invece, vivono come barboni. Perché?
Sul fenomeno esistono pochi dati, anche perché è una realtà che solo di recente è stata individuata[5]. E’, innegabilmente, un fenomeno che sfugge alla rilevazione, se non quando emergono situazioni prevalentemente individuali, segnalati dalla rete di prossimità o in seguito a fatti di emergenza sanitaria o di problemi di sicurezza (fughe di gas, problemi di corto circuito, allagamenti, ecc.). I barboni domestici sono ancora più invisibili rispetto ai barboni di strada, in quanto avere una casa in cui vivere, nasconde ancora più efficacemente la loro esistenza al mondo.
Le cause della problematica hanno fondamento in forti stress emotivi dovuti a episodi della vita personale particolarmente duri o ad una difficoltà socio-relazionale che impedisce la corretta integrazione sociale, creando una sorta di alienazione dai contesti esterni che poi si traduce nella segregazione di se stessi all’interno delle proprie mura domestiche, spesso accompagnata da ulteriori disturbi e/o patologie:
- la disposofobia, ovvero la tendenza ad accumulare oggetti in modo compulsivo nel proprio ambiente di vita. A volte, possono essere anche animali domestici rendendo ancora più precarie le proprie condizioni igieniche e di salute, se non anche pericolose (i cumuli di oggetti associati alla totale noncuranza per la manutenzione possono causare problemi seri come incendi).
- la cosiddetta sindrome di Diogene[6], secondo cui gli individui si recludono nelle mura domestiche per una totale disattenzione alle proprie necessità basilari, come la salute o l’igiene.
La rilevazione evidenzia che si tratta di soggetti anziani, soli e quasi tutti italiani (gli stranieri sono solo il 3%). Minima la differenza tra uomini e donne, con una lieve predominanza femminile (sono il 51,7 per cento), in linea con la distribuzione demografica nazionale. Rispetto all’età gli individui di età over 74 anni sono il 49%, mentre i soggetti in età 65-74 anni sono il 21%, e under 65 anni rappresentano il 30%. Sono dunque anziani solitari per scelta, per cause naturali o per rotture nelle proprie reti familiari. Il 44% risulta celibe o nubile, il 27% è vedovo/a, il 18% è coniugato, mentre si registra il 6% di divorziati e il 4% di separati. Il 40% è in possesso del diploma o della laurea; il 24% della licenza elementare e il 35% della licenza media inferiore.
Gli individui in situazione di barbonismo domestico “dequalificano i loro averi o non sono in grado di gestirli e, di conseguenza, non riescono a soddisfare i propri bisogni scivolando in situazioni di grave marginalità. Il disporre di redditi e di un potere di acquisto equiparabili a quelli del ceto medio non è sufficiente a sfuggire a questa situazione di marginalità”[7]. Per questi cittadini, che siano senza fissa dimora o “barboni” domestici, lo Stato ha strumenti di intervento anche grazie a tutto il sistema di welfare italiano, che, pur con tutti i problemi di inefficienza e di lacune, ha comunque gli strumenti per intervenire anche sulla base di tutta una normativa che offre possibilità di intervento, ma che viene sovente disattesa.
Secondo le Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia, oggetto di apposito accordo tra il Governo, le Regioni, le Province Autonome e le Autonomie locali in sede di Conferenza Unificata del 5 novembre 2015 hanno competenza le istituzioni locali. Inoltre Caritas diocesane, molti organismi del Terzo Settore intervengono in vari modi: per i senza dimora offrendo servizi (luoghi di riparo, assistenza abitativa sia pure temporanea (dormitori), servizi igienico-sanitari, mense, disponibilità di capi di abbigliamento in buone condizioni, servizi notturni di distribuzione di pasti caldi, quando possibile anche assistenza sanitaria); per i barboni domestici, quando è possibile infrangere il muro di ostilità e diffidenza, con distribuzione di pasti e piccoli servizi (pagamenti di utenze, acquisto di generi alimentari).
- Sociologa della educazione. ISP Roma
[1] ISTAT, Indagine persone senza dimora, 2014.
[2] La vicenda del vagabondo dei tempi moderni è legata indissolubilmente alla storia e alla cultura statunitensi. Jack London con i suoi romanzi, i cantanti di musica folk come Woody Guthrie, Cisco Huston, Leadbelly con le loro ballate, Charlie Chaplin con il personaggio di Charlot vestito di stracci e bombetta, Jack Kerouac con i beats di Sulla strada e hanno tutti contribuito a diffondere questa figura di proletario vagante anche fuori dai confini degli Stati Uniti.
[3] Anno di pubblicazione della prima indagine.
[4] Le soluzioni più frequenti sono all’esterno: all’aperto, in una tenda o tra i rifiuti, in un veicolo: una automobile o una roulotte come sistemazione temporanea, per esempio persone appena sfrattate dalla propria casa, in un luogo pubblico: parchi, autobus o stazioni ferroviarie, aeroporti, in strutture abbandonate: edifici o automobili abbandonate, barche tirate a secco, rifugi, dormitori: che offrono alloggio temporaneo economico, campi profughi: campi adeguatamente attrezzati per i senzatetto solitamente situati vicino alle stazioni ferroviarie.
[5] Le indagini sono molto limitate. La prima in Italia è relativa alla condizione del barbonismo domestico a Roma, “Uno studio sul barbonismo domestico nell’area metropolitana di Roma. Tra povertà, Sindrome di Diogene e disposofobia” redatto nel 2016 a cura del sociologo Luca Di Censi e da un gruppo di lavoro composto da esperti del fenomeno provenienti dal Servizio Sociale della città di Roma e dalla Cooperativa Ambiente e Lavoro Onlus,
[6] La sindrome prende nome da Diogene di Sinope, che aveva scelto di vivere con il minimo indispensabile.
[7] Di Censi Luca (a cura di), op. cit.