di Gianluca Aresta *
Da tempo si susseguono, sempre con grande attualità e stimolati da un terreno di fertile produzione giurisprudenziale in materia, discussioni, dibattiti e prese di posizione su un argomento che ha visto diversi Autori confrontarsi anche sulle pagine di questa Rivista: il principio di bigenitorialità.
Tanto è stato scritto, tanto è stato detto, più volte la giurisprudenza ha voluto chiarire la valenza della bigenitorialità nell’attuale sistema sociale e normativo, tanto che potrebbe sembrare a dir poco superfluo tornare sull’argomento.
Tuttavia, lo spunto per questa breve riflessione (senza alcuna pretesa di esaustività!) origina proprio da una recente ordinanza della Suprema Corte, la n. 9143 del 19/5/2020, la quale ha statuito che: “Il giudizio prognostico da compiere in ordine alla capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione familiare non può, in ogni caso, prescindere dal rispetto del principio della bigenitorialità, nel senso che, pur dovendosi tener conto del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della loro personalità, delle consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore, non può trascurarsi l’esigenza di assicurare una comune presenza dei genitori nell’esistenza del figlio, in quanto idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi e a consentire agli stessi di adempiere il comune dovere di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del minore”.
Sembrerebbe di leggere fra le righe della decisione della Suprema Corte una affermazione tranchant del principio per cui la bigenitorialità sarebbe un valore da preservare “ad ogni costo”. Ma è proprio così? Proviamo, allora, a tornare sull’argomento, cercando una giusta angolazione per una prospettiva di riflessione che possa stimolare una risposta alla curiosa domanda che ci siamo posti.
È ormai noto che il principio di bigenitorialità, definitivamente affermatosi nel nostro substrato sociale e nel nostro ordinamento giuridico, è il principio etico in base al quale un bambino (o, forse, sarebbe più corretto dire un figlio minore) ha una legittima aspirazione, o meglio un legittimo diritto, a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, anche se questi siano separati o divorziati, senza che tale diritto possa essere ostacolato, o violato, da ingiustificabili impedimenti che possano legittimarne l’allontanamento da uno dei due genitori.
Dopo la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo di New York del 20 novembre 1989 (ratificata nel nostro ordinamento con Legge del 27 maggio 1991, n. 176) si è affermato, sempre di più, il principio per cui un bambino ha il diritto di avere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, anche a seguito della loro separazione, così che il concetto di bigenitorialità è stato esteso anche alla famiglia disgregata.
L’articolo 147 del Codice Civile – rubricato “Doveri verso i figli” – statuisce che “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis cod. civ. (107, 155, 279, 330, 333, 30 Cost., 570 – 572 c.p.)”.
L’art. 337 ter del Codice Civile – rubricato “Provvedimenti riguardo ai figli” – a sua volta statuisce, tra l’altro, che: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Di conseguenza, rappresenta un preciso diritto dei figli quello di essere mantenuti, educati, istruiti e assistiti dai genitori, nel rispetto delle loro capacità, delle loro inclinazioni naturali e delle loro aspirazioni. I figli hanno, altresì, il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti (art. 315 bis cod. civ.), vale a dire nonni, zii, cugini, e altri.
È evidente, però, che il diritto dei figli di restare con i genitori viene messo in seria discussione in presenza della separazione di questi. Nelle situazioni di disgregazione familiare, il principio da rispettare è (sarebbe) quello della bigenitorialità, principio che si trasforma nel dovere del Giudice di preferire sempre, nel suo processo decisionale, l’affido condiviso della prole, anziché quello esclusivo. In realtà, l’evoluzione del diritto di famiglia, allo stato, non ha ancora definito la portata e i confini entro i quali circoscrivere quel concetto di bigenitorialità che, introdotto dalla L. n. 54 del 2006, è orientato a garantire l’effettività del diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, anche in presenza di separazione.
Il compito dell’organo giudicante diventa particolarmente impegnativo e gravoso allorquando è chiamato a giudicare fattispecie caratterizzate da una elevata conflittualità tra i genitori, alimentata a volte da una competitività esasperata, tesa perfino a distorcere le finalità dell’istituto attraverso sopraffazioni di carattere egoistico potenzialmente idonee a sacrificare le aspirazioni dei figli stessi.
Nel nostro ordinamento non esiste (ancora) un’indicazione esemplificativa, e tanto meno tassativa, di quelli che sono i criteri fondanti la scelta dell’affidamento condiviso in luogo di quello esclusivo, restando in capo al Giudice una discrezionalità valutativa e decisionale quanto mai ampia, con particolare riferimento alla scelta del regime di affido esclusivo o rinforzato. Del resto, questa impostazione sembrerebbe la diretta e fisiologica conseguenza della impossibilità di inquadrare in schemi rigidi le più diverse situazioni, caratterizzate indubbiamente da profili di personalità e soggettività, in materia di affidamento dei figli e di esercizio di responsabilità genitoriale.
Certo non può negarsi che dalla riforma del 2013 (D. Lgs. del 28/12/2013, n. 154) ad oggi, la giurisprudenza della Suprema Corte, a cui si sono poi tendenzialmente uniformati i Tribunali Ordinari, ha provveduto ad individuare dei parametri sulla base dei quali valutare, in concreto e per ogni singolo caso, la scelta del regime di affido da applicare, partendo sempre dal comune denominatore identificato nel principio del best interest of the child, il “miglior interesse del fanciullo”, così come sancito, sin dal 1989, dall’art. 3 della Convenzione di New York, che statuiva a chiare lettere: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”.
È banale sottolineare che il miglior interesse per un bambino è certamente sempre quello di avere una mamma e un papà che collaborano per garantirgli una crescita equilibrata e serena, a prescindere dal fatto che il nucleo familiare si sia disintegrato, e appare oltremodo evidente che il legislatore ha scelto di adottare il regime di affido condiviso come “regola”, proprio al fine di garantire al minore un rapporto equilibrato e continuativo (e magari sereno) con entrambi i genitori.
In un simile contesto, con l’ordinanza n. 31902 del 10 dicembre 2018, la Corte di Cassazione si vedeva costretta a negare l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore con ognuno dei genitori e a ricordare come il diritto alla bigenitorialità andasse correttamente inteso non nel senso di parità dei tempi di frequentazione del minore, ma più semplicemente nel senso di diritto di ogni genitore e del figlio ad essere presente in modo significativo nella sua vita, contemperando questo diritto con le complessive esigenze di vita che si possano presentare nel caso concreto. Di conseguenza, il diritto alla bigenitorialità deve essere inteso come presenza comune dei genitori nella vita dei figli, idonea a garantire agli stessi una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, che hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (come sottolineato sempre dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 18817 del 23 settembre 2015).
Allora, in tema di affidamento dei figli minori, il Giudice deve orientare la sua decisione verso l’interesse morale e materiale esclusivo dei figli minori, in relazione alle capacità dei genitori di crescere ed educare la prole nella situazione causata dalla disgregazione dell’unione, soffermando la propria attenzione decisionale sulla sussistenza di alcuni indefettibili parametri, quali il modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, le rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché la loro personalità, le consuetudini di vita e l’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore.
Non è una novità, questa. Lo afferma, come detto, già da molti anni la legge (art. 337 ter cod. civ.) e lo ha rimarcato più volte la giurisprudenza sia di merito, sia di legittimità. Ma, nella quotidianità, questa norma viene spesso disattesa, forse per la difficoltà di individuare, nel concreto, i presupposti di fatto a cui la stessa deve essere ancorata, proprio perché si tratta, come detto, di situazioni soggettive peculiari che sfuggono evidentemente ad una rigida tipizzazione.
Per tale ragione, a volte i Giudici sono stati “costretti” ad intervenire per riaffermare l’importanza e la centralità del principio in esame, e, a questo proposito, si deve ricordare che nel 2013 l’Italia venne sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non avere predisposto un sistema giuridico (e amministrativo) adeguato a tutelare il diritto inviolabile del genitore (nella casistica quasi sempre il padre separato) di esercitare il naturale rapporto familiare col figlio (CEDU, Sez. II, sentenza del 29/1/2013, Affaire Lombardo c/Italia). Una “lezione”, questa, che ha reso ancor più attenti tutti gli operatori del settore – giudici, avvocati, consulenti tecnici, mediatori e servizi sociali – a garantire l’applicazione effettiva del principio di bigenitorialità. Ma, forse, questa attenzione a volte ha perso la misura e si è trasformata in eccesso, laddove si è voluto affermare il principio “ad ogni costo”, anche al di là di quella giusta effettività richiesta dalla stessa Corte Europea.
Nel 2015, poi, il Tribunale di Milano, con l’ordinanza del 9/7/2015 (G.R.: Dott. Buffone), confermava l’affidamento condiviso dei figli minori anche in caso di infedeltà coniugale, sostenendo che quando viene meno la relazione di coppia tra i due coniugi non deve conseguentemente decadere la capacità genitoriale del coniuge infedele – marito o moglie che sia – poiché le due cose sono e devono rimanere rigorosamente separate.
In questo panorama, che ha richiesto e richiede un importante ed indubbio impegno di immedesimazione in un nuovo “contesto sociale” da parte degli stessi Giudici, si pone l’ordinanza della Suprema Corte del 19/5/2020 (che abbiamo richiamato nel nostro incipit), che sembra, in realtà, lasciare spazio a considerazioni molto meno ovvie di quanto si possa pensare e che quasi impone di fermarsi un attimo a riflettere sullo stato attuale della affermazione del principio della bigenitorialità nel nostro sistema sociale e giuridico.
La vicenda prendeva spunto da un ricorso proposto da un padre dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Lecce per ottenere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 333 cod. civ. (rubricato “Condotta del genitore pregiudizievole ai figli”), la riorganizzazione delle competenze genitoriali, con esclusione della capacità genitoriale della madre, rea di aver posto in essere condotte ostacolanti nei suoi confronti. La madre, costituitasi in giudizio, sosteneva che il figlio rifiutava la figura paterna per aver da lui subito maltrattamenti e violenze e per aver assistito a numerosi episodi di violenza posti in essere dal padre nei suoi confronti. Con decreto dell’11 gennaio 2019, il Tribunale per i Minorenni di Lecce disponeva il collocamento del padre e del figlio presso un’idonea comunità educativa.
La Corte d’Appello di Lecce, su reclamo proposto dalla madre, preso atto della sussistenza di una elevata conflittualità tra i genitori e del fallimento dell’affido del minore ai Servizi sociali, disposto con un precedente decreto del 20 luglio 2016, confermava la decisione del Tribunale per i minorenni di Lecce. Tenuto conto del persistente rifiuto del minore ad incontrare il padre e della presenza di un asserito condizionamento da parte di figure parentali, in primo luogo della madre, affermava la necessità di “favorire” la relazione tra il minore e il padre, non potendo assumere, a dire della Corte territoriale, alcun rilievo i comportamenti penalmente illeciti ascritti dalla reclamante al padre, in assenza di una pronuncia giudiziaria penale quanto meno di primo grado.
La Suprema Corte, pertanto, nel rispetto del principio di bigenitorialità e volendo tutelare il diritto del minore a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, riteneva corretto accordare la preferenza, tra le alternative possibili, a quella soluzione di affido e collocamento che consentisse di assicurare il recupero del rapporto con il genitore, pregiudicato da un’interruzione dovuta all’atteggiamento ostativo dell’altro genitore; atteggiamento, questo, che i Giudici di legittimità ritenevano aver determinato nel minore quel sentimento di rifiuto nei confronti del genitore non convivente.
Il Giudice, nella fattispecie in esame, ha voluto individuare una soluzione che potesse consentire al minore di preservare, senza condizionamenti esterni, il rapporto con entrambi i genitori, pur implicando tale scelta uno sradicamento del minore dalle proprie abitudini di vita e la sua collocazione in una comunità educativa unitamente al genitore “escluso”, anche in considerazione della necessità di quest’ultimo di superare problematiche di tipo personologico, attraverso adeguati interventi psicoterapeutici.
Secondo la pronuncia in commento, la decisione della Corte territoriale non avrebbe violato l’interesse superiore del minore, ma vi si sarebbe strettamente attenuta, essendo il collocamento in una struttura educativa idoneo ad evitare il grave condizionamento psicologico determinato dal continuo contatto con la madre. Tutto ciò, però, a dispetto della pendenza di procedimenti penali a carico del padre, per condotte di maltrattamento e di lesioni personali aggravate, asseritamente poste in essere in danno sia della madre, in presenza del minore, e sia di quest’ultimo, avendo il Giudice civile – nell’ambito del suo potere di valutazione – ritenuto tali condotte non decisive rispetto al perseguimento del best interest of the child.
Le condotte penalmente rilevanti ascritte al padre nel contesto portato davanti ai Giudici sono, forse, il vero fulcro attorno a cui ruota la valutazione della coerenza della sentenza in questione. La Suprema Corte, pur non escludendo la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti al padre, si limitava a negare il carattere decisivo dei procedimenti penali pendenti per l’accertamento degli stessi, non ancora pervenuti neppure alla pronuncia di una sentenza di primo grado, avendo, essa Corte, proceduto ad una autonoma valutazione di tali comportamenti che ne ridimensionava la portata, sia sotto il profilo materiale, sia sotto quello della potenziale dannosità per l’equilibrato sviluppo psicofisico del minore.
Proprio l’autonoma valutazione di tali condotte avrebbe, dunque, portato la Corte territoriale, con giudicato poi avallato dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto infondate le censure della madre sul punto, ad optare per la collocazione del figlio e del genitore “escluso” presso una comunità educativa, contesto idoneo a garantire congiuntamente sia la sicurezza del minore, sia la graduale ripresa dei rapporti con il padre, con la collaborazione e sotto la vigilanza di persone professionalmente qualificate.
La pronuncia impone, però, una riflessione in merito alla portata e agli specifici confini entro cui circoscrivere il “concetto di bigenitorialità che, quantunque astrattamente orientato a garantire l’effettività del diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, spesso si concretizza nella ricerca di soluzioni che garantiscano il diritto dei genitori a essere presenti in maniera significativa nella vita dei figli” (come sostiene, con condivisibile argomentazione, la Dott.ssa Giulia Eleonora Aresini, Magistrato, “Bigenitorialità: un valore da preservare a tutti i costi?”, in ilFamiliarista.it, del 20/7/2020).
Il confine tra le due posizioni appare spesso labile, specie se si considera che i comportamenti del genitore convivente, volti a denigrare l’altro genitore e a influenzare negativamente il minore, talvolta identificati come alienazione parentale, pregiudicano non solo il diritto dell’altro genitore ad essere presente nella vita del proprio figlio, ma anche il diritto di quest’ultimo ad una crescita il più possibile serena ed equilibrata e ad un sano sviluppo psicologico. In tali casi, si è spesso condivisibilmente assistito a provvedimenti, sia del Giudice ordinario, sia del Giudice minorile, in cui la soluzione adottata è stata quella di un collocamento del minore presso il genitore “alienato”, incolpevole rispetto alla campagna di denigrazione posta in essere nei suoi confronti da parte dell’altro genitore, incapace di garantire l’altra figura genitoriale agli occhi del minore.
Nel caso in esame, tuttavia, va considerato che, diversamente dalle situazioni descritte, il padre – il cui diritto a mantenere rapporti costanti e continuativi con il minore si assume violato – non sembrerebbe potersi definire un padre esemplare, avendo egli posto in essere nei confronti della madre – e alla presenza del minore – condotte violente che, sebbene ridimensionate nella loro portata da parte della Corte territoriale, costituiscono pur sempre comportamenti a cui un minore non dovrebbe mai essere esposto, neppure in via indiretta. Del resto, sono molteplici le pronunce che hanno ritenuto l’inidoneità genitoriale di coloro che non sono stati in grado di proteggere i propri figli dalle violenze del partner, sottoponendoli alla cd. violenza assistita, per cui parimenti inidoneo potrebbe ritenersi proprio colui che tali violenze ha commesso.
Non si deve dimenticare che la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (aperta alla firma l’11 maggio 2011 e ratificata, nel nostro Paese, con L. 27 marzo 2013, n. 77) ha statuito, all’art. 31, che gli episodi di violenza devono essere valutati dal Giudice in sede di determinazione dell’affido e del collocamento dei minori, dal momento che, in base ad essa, gli Stati aderenti devono “garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione” e che deve essere assicurato “che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini”.
Tuttavia, l’ordinanza in commento, nell’esaminare la violazione proprio di questa disposizione dedotta dalla madre del minore, riteneva infondata la predetta censura e avallava la soluzione adottata dalla Corte territoriale, ritenendo che essa, nel rispetto delle indicazioni convenzionali, avesse adeguatamente considerato i bisogni del minore – e l’esigenza che il recupero dei rapporti con il padre non ne pregiudicasse la sicurezza – attraverso il loro inserimento in una comunità educativa.
Nel caso in questione, la acclarata (anche se non provata con giudicato penale definitivo) presenza di comportamenti violenti da parte del padre lascerebbe qualche dubbio in ordine alla genuinità e alla opportunità della scelta della bigenitorialità, almeno in un momento estremamente critico del rapporto familiare, con la collocazione del figlio minore in una comunità educativa, insieme al padre. Sembrerebbe, quasi, una scelta “terapeutica” quella adottata dalla Suprema Corte, ma diretta forse più a curare il genitore malato per neutralizzarne la pericolosità, che non a salvaguardare quell’interesse superiore del fanciullo, che paradossalmente doveva costituire, invece, il presupposto essenziale della statuizione dei Giudici di legittimità.
L’interesse del fanciullo sembra, nel caso di specie, essere sacrificato sull’altare di quel superiore principio della bigenitorialità, che, strano ma vero, ha visto la luce proprio per garantire armonia, sicurezza, serenità e tranquillità al minore di fronte al traumatico ed inaspettato evento della disgregazione familiare. Il minore non solo viene privato delle proprie abitudini di vita (sdradicato dal proprio ambiente quotidiano e collocato in una comunità educativa accanto ad un padre violento), ma anche della figura materna che sembrerebbe (il condizionale appare d’obbligo) essersi macchiata di una sola colpa, ossia aver cercato di allontanarlo da un genitore violento.
Mi sembra di poter condividere lo smarrimento, e sicuramente anche la preoccupazione, della Dott.ssa Giulia Eleonora Aresini che si domanda “se il diritto alla bigenitorialità debba sempre assurgere ad emblema dell’interesse del minore oppure se talvolta, in nome della bigenitorialità, non venga in realtà favorito il diritto del genitore a vivere con il figlio, ponendo in secondo piano il diritto di quest’ultimo a crescere in un ambiente sereno ed amorevole” (in “Bigenitorialità: un valore da preservare a tutti i costi?”, in ilFamiliarista.it, del 20/7/2020).
In uno strano e talvolta crudele gioco di “eccessi”, spicca – guardando il rovescio della medaglia – la recente sentenza del Tribunale di Brescia (n. 2182/2020 del 29/10/2020), con la quale “il Tribunale, in un procedimento giudiziale di cessazione degli effetti civili del matrimonio, dispone l’affidamento c.d. super esclusivo della figlia della coppia alla madre, autorizzandola ad assumere autonomamente anche le decisioni di maggiore importanza per la minore. Il Tribunale ha così stabilito poiché il padre, pur avendo sempre provveduto al mantenimento della figlia e partecipato agli incontri protetti con la bambina, ha interrotto il percorso di cura che stava seguendo presso il CPS per il disturbo di tipo paranoide di cui soffriva e ha iniziato ad assumere ‘… un atteggiamento dichiaratamente evitante nei confronti della figlia …’, situazione che è andata peggiorando durante la pandemia da Covid 19 tuttora in atto”.
È emotivamente forte la sensazione che si prova leggendo la recentissima statuizione del Tribunale di Brescia (che prevedibilmente sarà sottoposta a gravame, sino ad arrivare al giudicato della Corte di Cassazione) che riafferma, con una inaspettata e fredda fermezza, l’antitesi del principio della bigenitorialità, ossia l’affido esclusivo (o, meglio, l’affido super esclusivo) in capo ad uno dei due genitori.
In realtà, la deroga alla “regola” dell’affidamento condiviso in favore del regime di affido esclusivo, nell’ambito del quale, comunque, sarebbe riconosciuto un seppur minimo esercizio della responsabilità genitoriale in capo al genitore non affidatario, sarebbe prevista solo in ipotesi assolutamente residuali, laddove si riscontri una elevata conflittualità tra i genitori o un totale disinteresse morale e materiale da parte di un genitore rispetto alla vita del proprio figlio.
Confesso che lascia non poco imbarazzati e confusi la statuizione del Tribunale di Brescia che, pur in assenza di comprovati elementi di fatto connotati da estrema e irreversibile gravità e, comunque, all’esito di una valutazione processuale riferita ad un lasso di tempo assolutamente breve, ha adottato con fermezza il regime di affido super esclusivo, trascurando (o meglio, non ritenendo di dover attribuire giusta considerazione) i profili di una figura paterna che, a quanto si legge nella sentenza, aveva sempre provveduto al mantenimento della figlia, aveva sempre seguito gli incontri, aveva anche richiesto un incremento della durata degli stessi per cercare di recuperare il rapporto con la bambina, dimostrando, quindi, un vivo interesse nei confronti delle esigenze, morali e materiali, della stessa.
Il padre, peraltro, nella piena consapevolezza dei problemi di salute mentale di cui soffriva (disturbo di tipo paranoide) si era impegnato da tempo (circa due anni) a seguire un percorso di sostegno psicologico e farmacologico, pur avendolo interrotto qualche tempo prima della statuizione del Tribunale. Forse è appena il caso di ricordare (magari con l’intento di approfondire in una prossima occasione l’argomento) che l’affidamento c.d. “super esclusivo o rafforzato” consiste in una forma (che potremmo definire estrema) di affidamento esclusivo, ancora più restrittivo e stringente, atteso che concentra l’intero esercizio della responsabilità genitoriale in capo ad un solo genitore.
L’apripista di questa figura di origine giurisprudenziale è stata un’ordinanza ex art. 708 c.p.c., resa, in data 20 marzo 2014, dal Dott. Giuseppe Buffone, Giudice del Tribunale di Milano, con la quale veniva disposto che “… l’inidoneità di uno dei genitori, assente dalla vita del figlio, inadempiente all’obbligo di mantenimento e con cui è difficile comunicare, poiché si rende irreperibile, giustifica, nell’interesse del minore, la scelta di un affido c.d. super esclusivo, che concentri tutto l’esercizio della responsabilità genitoriale sull’altro genitore, per evitare che la rappresentanza degli interessi del minore sia inibita anche per questioni fondamentali …”.
Nella fattispecie decisa dal Tribunale di Milano, il padre del minore non risiedeva in Italia, ometteva di provvedere al mantenimento del figlio, si disinteressava della sua vita e, oltre ad aver avuto più volte comportamenti violenti nei confronti della moglie, utilizzava il figlio come strumento di ritorsione nei confronti della stessa: tutti presupposti gravi e concreti che inducevano il Giudice ad adottare un provvedimento “estremo”, affidando il minore in via esclusiva alla madre, non prevedendo alcuna regolamentazione dei rapporti di visita tra padre e figlio e riconoscendo al padre il solo diritto di visita da esercitarsi unicamente previo accordo con la madre.
Dopo l’ordinanza “storica” del Tribunale Ordinario di Milano sono stati davvero sporadici i casi nei quali i Giudici di merito hanno avuto occasione di invocare l’art. 337 quater cod. civ. nel senso sopra delineato e, comunque, le fattispecie che ne hanno richiesto l’applicazione sono sempre state rigorosamente circoscritte ad una casistica di situazioni pesantemente critiche, delicate, con risvolti di pericolosità, afferenti a totale rifiuto del nucleo familiare (Tribunale di Milano del 4 giugno 2015, n. 6900), totale disinteresse di un genitore sin dal momento della gravidanza e anche successivamente all’accertamento della paternità (Tribunale di Messina del 20 giugno 2018), ammissione di assenza di rapporti con i figli e totale disinteresse a volerli creare o coltivare (Tribunale di Pavia del 18 settembre 2018), violenza tra i genitori (Tribunale di Roma del 27 gennaio 2015, n. 1821 e Tribunale di Forlì del 22 aprile 2020, n. 300).
Fattispecie davvero critiche, ma molto lontane da quella affrontata dal Tribunale di Brescia con la statuizione che stavamo esaminando. È proprio il raffronto fra il merito della fattispecie in esame e quelle richiamate che non può non far pensare che attraverso una diversa e più coerente valutazione dei comportamenti individuali del padre nel caso di specie (assenza di aspra conflittualità fra genitori, approccio sereno del padre nella assunzione delle decisioni di maggior interesse per la figlia, solo un “raffreddamento affettivo” del padre nei confronti della figlia, rallentamento delle telefonate) avrebbe permesso di evitare di interrompere del tutto e bruscamente ogni rapporto genitoriale.
È indubbio che la patologia di cui era affetto il padre (disturbo di tipo paranoide) avrebbe potuto compromettere il pacifico e corretto esercizio della responsabilità genitoriale da parte sua e, quindi, far sorgere qualche dubbio intorno alla opportunità di ricorrere all’affidamento condiviso, ma è altrettanto vero che la scelta così rigida e drastica operata dal Tribunale di Brescia inevitabilmente comprometterà irreversibilmente proprio la relazione genitore-figlio.
Va da sé che è lecito chiedersi se il precedente richiamato risulterà l’apripista per un utilizzo più “disinvolto e meno restrittivo di questa tipologia di affidamento di creazione prettamente giurisprudenziale, che potrebbe addirittura diventare improprio e strumentale nelle liti che conseguono allo scioglimento di un vincolo matrimoniale (ad esempio, qualora un genitore che non volesse occuparsi dei propri figli, lo usasse come escamotage per scaricare sull’altro l’esclusività della responsabilità genitoriale)” (il condivisibile “timore” è così avanzato da Avv. Paola Maccarone, “La ricerca del giusto equilibrio tra l’affidamento super esclusivo e il diritto alla bigenitorialità del minore”, in il.Familiarista.it, del 21/1/2021).
Volevamo trovare una diversa prospettiva di riflessione per chiarire dei dubbi, ma, forse, la realtà giuridica ci ha sottoposto una fotografia che confonde letteralmente le idee: questi due padri così diversi, uno asseritamente violento (per quello che dicono gli atti del processo) sia nei confronti della moglie, sia nei confronti del figlio minore, a cui la Suprema Corte ritiene di concedere, nel rigido rispetto del principio della bigenitorialità, l’affido condiviso, allocato in comunità educativa con il figlio, a dispetto dei suoi violenti comportamenti; l’altro, mestamente reo di essere portatore di una patologia (disturbo di tipo paranoide) che ha causato un raffreddamento affettivo nei confronti della propria figlia e che per i Giudici del Tribunale di Brescia avrebbe potuto compromettere l’esercizio della responsabilità genitoriale, tanto da ritenere sussistenti i presupposti per disporre l’affido super esclusivo in capo alla madre. Confesso che il disorientamento è notevole!
È un sistema che evidentemente è davvero alla ricerca di un intimo equilibrio fra estreme soluzioni, fra un eccesso di affermazione indiscriminata del principio di bigenitorialità e un ritorno alla applicazione del rigido affido super esclusivo, in assenza di ben definite gabbie normative che giammai potranno “ammanettare”, in un’unica disciplina generale, una problematica dai marcati profili soggettivi e personali.
Si deve (banalmente) auspicare che a prevalere sia il buon senso, sia nei soggetti protagonisti, loro malgrado, del momento della disgregazione del nucleo familiare, sia nei Giudici, alla cui valutazione è rimessa la ricerca di quei presupposti di fatto e di diritto che possano giustificare una opzione anziché l’altra, sia nei soggetti tutti chiamati a collaborare per affermare concretamente l’interesse superiore del fanciullo.
L’evoluzione normativa, giurisprudenziale e sociale ha giustamente affermato la centralità, come detto, del principio della bigenitorialità, ma così come tale affermazione non deve essere affidata ad un perentorio ed indiscriminato “ad ogni costo”, così, d’altro lato, l’adozione del principio dell’affido esclusivo (anzi, super esclusivo o rafforzato) dovrebbe restare davvero un’eccezione applicabile solo in presenza di gravi, accertate e perduranti situazioni di fatto, seriamente critiche e pericolose, che impongano di considerare pregiudizievoli per il minore il riconoscimento e l’applicazione nei suoi riguardi del diritto alla bigenitorialità.
Proprio le due sentenze prese in esame ci dicono che, in assenza di una normativizzazione dei presupposti del riconoscimento del principio della bigenitorialità, la valutazione soggettiva dei comportamenti sottoposti al vaglio giudiziale potrà portare frequentemente a statuizioni degli Organi giudicanti eterogenee e, conseguentemente, all’apparenza incoerenti di fronte a situazioni apparentemente di univoca classificazione.
La ricerca di un equilibrio nel sistema, che consenta di non intravedere più eccessi (o esasperazioni normative) nelle statuizioni giudiziali, in favore della bigenitorialità o meno, non può prescindere dal contributo di tutti i soggetti coinvolti, affinché si possa giungere ad uniformare, anche nella coscienza collettiva, la valutazione di quei comportamenti che inevitabilmente dovranno essere sottoposti ad una valutazione giudiziale nelle situazioni di disgregazione del nucleo familiare.
* Avvocato. ISP Bari