di Gianluca Aresta
“Avvocato, dal punto di vista dei rapporti familiari gli incontri padre-figlie sono stati – e lo sono tutt’ora – sporadici se non addirittura inesistenti… chiediamo al Giudice di condannare il padre a frequentare le sue figlie o almeno paghi per quello che non fa. Deve fare il padre!”.
Quante volte abbiamo dovuto raccogliere questa richiesta da parte dei nostri assistiti? Quante volte ci siamo fatti carico di cercare di interpretare i bisogni, le necessità o le pretese manifestate a seguito del mancato rispetto degli accordi raggiunti in sede di separazione personale da parte di uno dei genitori, cercando di individuarne i profili più intimi di legittimità, di fondatezza e/o di pretestuosità, al contempo ricercando le soluzioni più opportune per risolvere la particolare questione proposta dalla mamma o dal papà di turno, alla disperata ricerca di una “presenza” anche dell’altro genitore nella quotidianità dei figli?
A me è capitato spesso e altrettanto spesso mi sono fermato a pensare se fosse realmente possibile costringere (o anche solo tentare di farlo) un padre, una madre, un genitore assente a frequentare e a “vivere” i propri figli o se, diversamente, il rapporto genitore- figlio sia un rapporto così intimo e personale da sfuggire inevitabilmente a qualsivoglia logica e forma di costrizione e coercizione, salvo non volerne alterare proprio quella natura intimamente e straordinariamente empatica, che ne costituisce, invero, il più importante presupposto genetico.
In realtà, molto spesso mi sono scoperto anche a pensare se fosse giusto farlo. “Fare i genitori” non è una facoltà, ma un dovere. Al momento della nascita di un figlio nascono anche una serie di obblighi, normativamente disciplinati, a cui i genitori non possono sottrarsi e a cui non è possibile rinunciare. È vero. Ma il diritto-dovere di frequentare (e di vivere) un figlio, nel senso più intimo e profondo del termine, al di là di qualsivoglia obbligo e dovere formale e/o economico patrimoniale, è normativamente disciplinato? E, soprattutto, sarebbe giusto disciplinarlo?
Quando si intraprende il sentiero di questa delicata problematica, si cammina lungo una strada impervia, che sembra non avere un equilibrio, costellata da infiniti insidiosi interrogativi; ma, forse, la domanda che meriterebbe immediatamente una risposta è se il diritto possa concretamente disciplinare, in ogni suo aspetto, il rapporto personale e intimo fra un genitore e un figlio, anche attraverso la previsione di misure coercitive a garanzia del rispetto delle “regole”. Se la giurisprudenza – sia di merito, sia di legittimità – e la dottrina tanto hanno dibattuto al fine di offrire una risposta giuridica, evidentemente si dovrebbe sostenere che certo il diritto può (anzi, deve) disciplinare ogni e qualsivoglia aspetto della vita familiare, anche a seguito della disgregazione della famiglia, tanto più quello fra un genitore e un figlio. Ma è proprio così?
È vero che il genitore separato è tenuto a contribuire al mantenimento del figlio, finché non raggiunge una sua indipendenza economica. Il dettato normativo di cui all’art. 147 cod. civ. – rubricato “Doveri verso i figli” – statuisce che “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’art. 315 bis”. In realtà, non esistono solo doveri economici in capo al genitore separato; infatti, fra gli obblighi del genitore separato ci sarebbe (il condizionale è d’obbligo, vista la problematica che stiamo trattando) anche quello di “fare il genitore”, ossia di essere presente nella vita del figlio, di assisterlo moralmente e di partecipare alla sua vita di tutti i giorni. Sarebbe inutile sottolineare che il fenomeno del genitore “assente” riguarda prevalentemente i padri, attesa, ancora oggi, la statisticamente accertata assoluta maggioranza delle madri collocatarie dei figli minori.
Insomma, se anche non si può imporre a una persona di amare il proprio figlio, c’è l’obbligo, quantomeno, di farlo sentire amato. In caso contrario, scatterebbe un imponente risarcimento del danno per la perdita dell’affetto. A ricordarlo è una recente sentenza del Tribunale di Roma secondo cui, seguendo un orientamento già consolidato della giurisprudenza di merito, è possibile obbligare un padre a vedere il figlio, prevedendo un “risarcimento dei danni non patrimoniali causati dall’assenza del genitore, trattandosi di diritto garantito dagli artt. 2 e 30 Cost.” (in termini, Tribunale Ordinario di Roma, Sez. I, del 19/5/2017). È evidente, però, che l’obbligo in questione non potrà mai trovare una realizzazione “fisica”, ma solo una realizzazione differita, attraverso la applicazione di sanzioni, anche particolarmente severe, quali appunto condanne economico-patrimoniali, fino alla perdita dell’affidamento condiviso, alla rivisitazione degli accordi raggiunti in sede di separazione o al riconoscimento, appunto, di un congruo risarcimento del danno.
La Suprema Corte, con la recente pronuncia che esaminiamo in seguito, ha specificamente statuito che: “All’inerzia del genitore non collocatario può derivare l’eccezionale applicazione dell’affidamento esclusivo in capo all’altro genitore (art. 316 c.c., comma 1), la decadenza della responsabilità genitoriale e l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità per condotta pregiudizievole ai figli (artt. 330 e 333 c.c.), la responsabilità penale per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), quando le condotte contestate, con il tradursi in una sostanziale dismissione delle funzioni genitoriali, pongano seriamente in pericolo il pieno ed equilibrato sviluppo della personalità del minore (Cass. Pen., Sez. VI, del 24/10/2013, n. 51488)”.
Ma la dimensione squisitamente punitiva delle sanzioni applicabili avrebbe quella capacità coercitiva richiesta per costringere, nei fatti, un genitore ad essere genitore? E qui il diritto comincia a mostrare le prime debolezze di fronte alle questioni di…coscienza dell’essere umano. Vacillano le prime certezze.
La mancanza di affetto comporta sempre uno scompenso nella crescita di un figlio minore. Scompenso che deriva da un “atto illecito”, atteso il generale dovere di madre e di padre di prendersi cura dei propri figli anche in caso di disgregazione della famiglia. La giurisprudenza, come ho detto, riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale solo quando previsto dalla legge o in caso di lesione di interessi costituzionali, circostanza che sembrerebbe ricorrere, a mente di un orientamento giurisprudenziale consolidatosi, nel caso di specie.
In altre parole, sebbene non si possa, almeno fisicamente, obbligare un genitore a frequentare i propri figli, lo si potrebbe “sollecitare” con la minaccia di un’azione legale di risarcimento del danno. Azione, questa, che potrebbe esperire anche il figlio, a distanza di numerosi anni, ormai divenuto maggiorenne. Il fatto di essere cresciuto senza l’assistenza del padre o della madre – assistenza tanto economica, quanto affettiva – gli consentirebbe di ottenere un congruo indennizzo. E non rileverebbe il fatto che, negli accordi tra i genitori, la madre abbia rinunciato a rivalersi contro l’ex coniuge o compagno: il figlio è titolare di un proprio interesse, in difesa del quale può agire in qualsiasi momento.
“A seguito della decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte del 2008 – sottolinea il Tribunale di Roma nella pronuncia summenzionata del 19/5/2017 – può essere disposta la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili di una persona che abbiano tutela costituzionale”. Le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano conferito rilevanza, nel caso di specie, al “totale disinteresse del genitore nei confronti del figlio, estrinsecatosi nella violazione degli obblighi connessi alla responsabilità genitoriale (cura, istruzione, educazione e mantenimento)”, precisando che tanto lede “i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle norme di diritto internazionale” che riconoscono “un elevato grado di riconoscimento e tutela” a tale diritto del figlio minore.
Nella vicenda giudicata dal Tribunale di Roma, il Giudice, pur non riconoscendo i presupposti per il riconoscimento di un danno patrimoniale per mancanza di prova specifica, riteneva provato che il genitore avesse violato i diritti fondamentali della figlia, statuendo, così, nel senso della sussistenza della prova del danno “al corretto sviluppo psicofisico” pregiudicato “dalla mancata presenza del genitore nel percorso evolutivo”, derivando il danno “dal dolore del figlio, dal suo turbamento derivante dalla mancanza del padre nell’arco della vita”.
Ebbene, il ristoro del danno così identificato dalla giurisprudenza e la dimensione evidentemente punitiva della soluzione risarcitoria “proposta” dalla giurisprudenza risolve il problema dell’inadempimento del genitore ai doveri “non economici” connessi al suo status di genitore? A mio parere assolutamente no, un genitore assente resterà (purtroppo) un genitore assente, magari gravato da un importante impegno risarcitorio nei confronti del proprio figlio a causa della sua assenza nella vita di quest’ultimo o, tanto più, pregiudicato nel suo diritto di esercizio dell’affido condiviso (ove mai questo possa interessargli!), ma nessuna norma giuridica e nessuna statuizione giudiziaria riuscirebbe mai a “costringerlo” ad essere padre o madre.
Sul terreno già fragile della delicata problematica in esame si pone, in maniera forse per alcuni un po’ brusca, la recentissima pronuncia della Suprema Corte che ha statuito che: “Il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614 bis c.p.c., trattandosi di un potere-funzione che, non sussumibile negli obblighi la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., una grave inadempienza, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio, quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata” (in termini, Cass. Civ., Sez. I, del 6/3/2020, n. 6471).
Certamente non poche discussioni ha suscitato la radicale presa di posizione (o di consapevolezza?) della Corte di Cassazione, anche in relazione a quanto la stessa Suprema Corte aveva statuito con precedenti orientamenti, allorquando aveva specificato che le “visite” del genitore al proprio figlio non sono soltanto un diritto-dovere del genitore stesso, ma principalmente un diritto del figlio minore che deve essere adeguatamente tutelato, prevedendo specifici strumenti risarcitori in caso di inosservanza del dovere di frequentazione del figlio da parte del genitore.
È alquanto interessante seguire il percorso intrapreso dai Giudici di legittimità per giungere alle conclusioni rassegnate con la pronuncia in esame in ordine alla questione afferente la possibilità che il diritto-dovere di visita del figlio minore del genitore non collocatario, ferma l’infungibilità della condotta, sia suscettibile di coercibilità in via indiretta, con le modalità di cui all’art. 614 bis c.p.c.. Ricordiamo solo che mediante il disposto normativo di cui all’art. 614 bis c.p.c. (rubricato “Misure di coercizione indiretta”, il riferimento è al testo della norma attualmente vigente, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 83/2015, convertito con modificazioni nella L. 132/2015) è stata introdotta nel nostro ordinamento processuale la previsione di una misura coercitiva, finalizzata ad incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi di fare e di non fare, infungibili e fungibili, mediante la prospettazione di una sanzione civile di carattere pecuniario (“astreinte” o penalità di mora) in caso di protrazione dell’inadempimento.
All’interno della famiglia nei rapporti tra genitori e figli, alla responsabilità dei primi ex art. 316 cod. civ., sostiene la Suprema Corte, si accompagna l’esercizio “di comune accordo” nell’attuazione del diritto dei figli minorenni di essere mantenuti, educati, istruiti ed assistiti moralmente, nel rispetto delle loro inclinazioni naturali ed aspirazioni, per contenuti che, richiamando quelli di un munus pubblico, sono espressivi della realizzazione degli interessi dei minori stessi. Nella descritta strumentalità di posizioni, si declina, appunto, il “diritto-dovere” di visita del genitore presso il quale il figlio minore non sia stato collocato, esercitabile dal genitore titolare che voglia o debba svolgere il proprio ruolo, “concorrendo con l’altro” ai compiti di assistenza, cura ed educazione della prole.
A dire della Suprema Corte, proprio quel diritto-dovere del genitore, nei suoi diversi contenuti:
- a) in quanto diritto, e quindi nella sua declinazione attiva, sarebbe tutelabile rispetto alle violazioni ed inadempienze dell’altro genitore, su cui incombe il corrispondente obbligo di astenersi, con le proprie condotte, dal rendere più difficoltoso o dall’impedire l’esercizio dell’altrui diritto, nei termini di cui all’art. 709 ter c.p.c. ed è, d’altra parte, abdicabile dal titolare;
- b) in quanto dovere, e quindi nella sua declinazione passiva, resta invece fondato sulla autonoma e spontanea osservanza dell’interessato e, pur nell’assolta sua finalità di favorire la crescita equilibrata del figlio, non è esercitabile in via coattiva dall’altro genitore, in proprio o quale rappresentante legale del minore.
Ebbene, la pronuncia in commento chiarisce che i rapporti familiari esulano dall’ambito di operatività dell’art. 614 bis c.p.c., né potrebbe essere altrimenti, affermano i Giudici di legittimità, “per ragioni di indole sistematica che leggono nel diritto di famiglia un diritto speciale, le cui relazioni ispirate all’attuazione dell’interesse preminente del minore rinvengono in esso fondamento e, se del caso, limite”.
Il provvedimento di cui al dettato normativo dell’art. 614 bis c.p.c., sostiene la Suprema Corte, “presuppone l’inosservanza di un provvedimento di condanna, ma il diritto (e il dovere) di visita costituisce una esplicazione della relazione fra il genitore e il figlio che può trovare regolamentazione nei suoi tempi e modi, ma che non può mai costituire l’oggetto di una condanna ad un facere sia pure infungibile”.
È particolarmente significativo il rilievo dei Giudici di legittimità secondo cui l’emanazione di un provvedimento ex art. 614 bis c.p.c. si porrebbe in evidente contrasto proprio con l’interesse del minore “il quale viene a subire in tal modo una monetizzazione preventiva e una conseguente grave banalizzazione di un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti, come quello alla sua frequentazione”. È questo il momento più alto della parte motiva della sentenza, in cui la Suprema Corte sembra (finalmente!) prendere consapevolezza della profondità del legame fra genitore e figlio e, senza fermarsi al freddo e distaccato dato normativo, accompagna il lettore fino ad affermare coraggiosamente che la monetizzazione di un rapporto genitore figlio significherebbe, semplicemente, banalizzare quel dovere essenziale del genitore nei confronti del proprio figlio. Ogni diversa lettura di tale diritto-dovere di visita, che volesse affermarne la natura di obbligo coercibile, precisa la Corte, contrasterebbe con la stessa finalità di quel diritto-dovere, di realizzazione dell’interesse superiore del minore, inteso come crescita ispirata a canoni di equilibrio ed adeguatezza.
Il diritto-dovere del genitore di far visita al figlio minore si caratterizza, quindi, per la sua intensa strumentalità rispetto all’attuazione dell’interesse del minore stesso. La condotta omissiva del genitore che non adempia al proprio dovere, pertanto, sulla scorta dell’orientamento dei Giudici di legittimità:
- a) non risulterebbe coercibile, ai sensi e per gli effetti dell’art. 614 bis p.c., poiché tale disposizione normativa presuppone una condanna del debitore incompatibile con la posizione giuridica del genitore, poiché per i Giudici di legittimità il diritto-dovere di visita non può mai costituire l’oggetto di una condanna, anche solo di fare una determinata cosa;
- b) non risulterebbe coercibile neppure ai sensi e per gli effetti dell’art. 709 ter p.c., poiché tale norma prevede ipotesi di risarcimento a fronte di un danno già integrato dalla condotta di uno dei genitori, e non una coercizione preventiva e indiretta di un dovere nel caso della sua inosservanza futura, ritenendo, pertanto, i poteri di intervento del Giudice, sulla scorta di tale dettato normativo, circoscritti al presente e, quanto alle conseguenze future di un possibile successivo protrarsi del comportamento sanzionato, limitati ad un mero potere di ammonimento.
La sentenza stabilisce, in conclusione, che il diritto-dovere di visita “è destinato a rimanere libero nel suo esercizio”, e allo stesso non è possibile attribuire un valore monetario, essendo espressione della capacità di autodeterminazione del soggetto e il suo esercizio è rimesso alla libera e consapevole scelta di colui che ne sia onerato, tanto da definirlo, in sede di redazione del principio giuridico, quale “potere-funzione”.
La sentenza dei Giudici di legittimità irrompe in un panorama giurisprudenziale precedentemente disegnato con tratti marcatamente diversi. Invero, la Suprema Corte aveva già avuto modo di affermare che “la radicale inosservanza da parte del genitore del dovere di cura e assistenza verso i figli, di cui risulti essersi disinteressato, può implicare una responsabilità non solo di natura civile, ma anche penale, atteso che, omettendo di esercitare il diritto di visita e sottraendosi agli obblighi di assistenza e di cura derivanti dalla responsabilità genitoriale, mantiene una condotta contraria alla morale della famiglia e commette reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570, comma I, c.p.” (in termini, Cass. Pen., Sez. VI, del 30/11/2015, n. 47287).
Il genitore che non esercita il diritto di visita viola, pertanto, i diritti fondamentali dei figli, non contribuendo alla loro cura ed istruzione, aspetti fondamentali per il corretto sviluppo di una psiche ancora in formazione. Ne consegue, quindi, che la condotta omissiva del genitore integrerebbe un illecito endofamiliare (c.d. da privazione del rapporto genitoriale) che legittima la richiesta di risarcimento del danno: “Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 Cost. – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c. c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole. … soggetto passivo diviene il minore, che perde, senza sua colpa, uno dei genitori” (in termini, Trib. Ord. Lecce, Sez. I, del 1/10/2019, n. 3024; Cass. Civ., Sez. VI, del 16/2/2015, n. 3079).
È evidente, quindi, che, secondo un precedente orientamento interpretativo, lasciare “libero”, nell’ambito dell’esercizio di una facoltà e non di un diritto-dovere, il genitore non collocatario di decidere se frequentare o meno i figli risulterebbe pregiudizievole per il diritto del minore, oltre che per l’altro genitore, in ragione di un aggravio di oneri economico patrimoniali a suo carico.
Non sono mancati i commenti critici al principio enucleato dalla Suprema Corte con l’ultima statuizione, che hanno sostenuto, al contrario, la piena adottabilità di misure coercitive indirette, quali strumenti per garantire la osservanza delle prescrizioni in capo al genitore non collocatario “assente” nella vita dei propri figli. Alcuni Autori hanno sottolineato che “… l’espressione provvedimento di condanna è, invece, interpretabile in senso lato, vale a dire come qualsiasi provvedimento che abbia un contenuto condannatorio: l’ambito della tutela di condanna si può, dunque, ampliare fino ad includere tutti gli obblighi civili (inclusi quelli afferenti alla responsabilità genitoriale), salve le eccezioni espressamente dettate dalla norma (v., in tal senso, Corte Appello L’Aquila, Decreto del 9/10/2018). …
Pur essendo auspicabile l’intervento chiarificatore o innovatore del legislatore, è opinione di chi scrive che tale secondo orientamento sia da preferire giacché, oltre che provvisto di validi argomenti a suo sostegno, consente di dare effettiva tutela all’interesse (preminente) del minore” (così, Sergio Matteini Chiari, in “Se il diritto/dovere di visita del figlio minore da parte del genitore non collocatario sia coercibile in forma indiretta”, nota a Cassazione civile, 6/3/2020, n. 6471, in Ilprocessocivile.it, aprile 2020, Giuffrè).
In realtà, non può non convenirsi sul fatto che, da un punto di vista squisitamente tecnico giuridico, resterebbe assolutamente condivisibile la prospettazione per cui “il dovere di visita del genitore non collocatario non dovrebbe essere qualificato come potere-funzione, espressione di un diritto potestativo a fronte del quale la posizione del minore si porrebbe come irrilevante, ma semplicemente, ed unicamente, come dovere, come vero e proprio obbligo, da correlare ai provvedimenti adottati ex art. 337 ter, comma II, cod. civ., nonché ai disposti normativi degli artt. 147 e 316 c.c., proprio al fine di realizzare l’interesse superiore (più esattamente preminente) del minore (sempre Sergio Matteini Chiari, in “Se il diritto/dovere di visita del figlio minore da parte del genitore non collocatario sia coercibile in forma indiretta”, nota a Cassazione civile, 6/3/2020, n. 6471, in Ilprocessocivile.it, aprile 2020, Giuffrè).
Ma le perplessità insorgono e restano, purtroppo, senza concrete risposte proprio nel momento in cui ci si sofferma a chiedersi fin dove la adozione di misure coercitive indirette possa effettivamente contribuire a raggiungere l’obiettivo primario, sotteso proprio a quell’interesse preminente del minore che si vuole tutelare, ossia garantire al figlio minore, in presenza di una situazione di disgregazione familiare, quell’affetto, quell’amore del genitore non collocatario, di cui si trova improvvisamente privato, per consentirgli di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori.
Perché dietro la fredda maschera giuridica della cura e della assistenza morale che la legge vuole garantire al figlio minore (si ripensi al dettato dell’art. 147 cod. civ.) non si può non leggere quell’affetto e quell’amore che nessuna misura coercitiva, anche la più afflittiva, potrà mai garantire e assicurare, ove un genitore decidesse, con malsana follia, di essere “assente” nella vita dei propri figli minori.
Certo è che la mancanza di affetto, la privazione di un profilo fondamentale e imprescindibile nella crescita emotiva di un figlio, quale sicuramente è la dannata assenza di un genitore, porta con sé inevitabilmente uno scompenso nella crescita del minore stesso, però è pur vero che la “conversione” del genitore “assente” passa inevitabilmente attraverso una imprescindibile educazione dello stesso ad essere genitore ed un profondo processo di responsabilizzazione di esso genitore. Ma la ferma e intima convinzione che rimane, confortata, per una volta, anche dalle attente e profonde riflessioni della Suprema Corte nell’ultima pronuncia esaminata, è che il diritto e la legge mai (il lettore vorrà perdonare la brutale fermezza e intransigenza della affermazione) potranno disciplinare coattivamente le questioni più intime della coscienza degli uomini; lì il diritto e la legge scopriranno inevitabilmente il loro profilo più fragile. Sempre.
E mentre mi ritornano alla mente, come nell’incipit della discussione, le accorate richieste della parte assistita che, con fervore e animosità, insisteva per un ricorso al Giudice al fine di ottenere un esemplare provvedimento di condanna nei confronti del padre “assente”, seppur non economicamente, nella vita dei propri figli, al contempo mi sovvengono le parole di un insigne giurista, Piero Bellini, che sostiene, in un testo dal titolo illuminante Il Diritto di essere se stessi, che: “La legge non può farsi garante autoritario di questo o quel codice di valori, ma solo assicurare a tutti i consociati la possibilità pratica di attuare la loro propria qualità di uomini” (Piero Bellini, Il Diritto di essere se stessi, 2007, Giappichelli Editore).
Poche, essenziali, incisive parole … “codice di valori”. E un codice di valori etici, quale patrimonio intimo e genetico di una persona, non sarà mai coercibile, perché la legge non potrà mai costringere coattivamente un padre che non vuole essere padre o una madre che non vuole essere madre ad essere pienamente genitori. La legge potrà prevedere un adeguato impianto sanzionatorio, certamente. E un Tribunale potrà sanzionarli, in caso di loro “assenza” nella vita del figlio minore, come, peraltro, statuito dalla stessa Suprema Corte, con la pronuncia esaminata, allorquando ha sottolineato che “La non coercibilità del diritto di visita non vale, infatti, ad escludere che al mancato suo esercizio non conseguano effetti”. Certamente, anche in maniera esemplare. Ma questo non regalerà ad un figlio l’affetto più intimo di quel genitore consapevolmente assente, di cui è stato privato e di cui, purtroppo, resterà privo, anche a dispetto di una sentenza che statuisca una severa ed emblematica “punizione” per quel genitore non genitore.
* Avvocato. ISP Bari