di Gianluca Aresta *
“Un’intera squadra di poliziotti venne a casa mia per una perquisizione. La mia ex moglie mi aveva denunciato per abuso sessuale sui miei figli. È iniziato il mio inferno. Indagarono per mesi, ma non trovarono mai niente, perché sono innocente. Sono stato sbattuto in prima pagina e trattato come un mostro. Otto anni d’inferno. … Non riesco a vedere i miei figli, questo è quello che mi distrugge ogni giorno, i bambini non stanno bene ed io sono ancora con le mani legate. Si sentono abbandonati da me. Non sanno quanto ho lottato e sto lottando. Non mi arrendo. Ma ho bisogno che qualcuno mi aiuti a fare vedere la verità a questi bambini. Aiutatemi” (su www.tempostretto.it, quotidiano online di Messina e provincia del 7/1/2019).
È il grido di dolore di un padre, di un medico affermato, di un professionista che si è specializzato con successo in un altro Paese in una delle cliniche più prestigiose al mondo. Rientrato in Italia, insieme alla moglie, dopo alcuni anni, diventa padre di due figli. Ma il matrimonio nel 2008 va in crisi e comincia una battaglia legale con l’iniziale riconoscimento di un assegno di mantenimento considerevole, perchè l’ex moglie non lavora, poi, nell’agosto del 2010, ottiene dal Tribunale la riduzione del mantenimento e da quel momento, in realtà, inizia il suo calvario.
Nei suoi confronti veniva chiesto per due volte l’arresto, negato perché le indagini avevano dato esito negativo. Successivamente veniva riaperta l’inchiesta dopo le dichiarazioni di una maestra. L’incidente probatorio, con le dichiarazioni dei bimbi, dà esito negativo, ma nonostante ciò viene rinviato a giudizio. Il processo inizia nel 2013 e si conclude nel 2017 con la piena assoluzione.
“Ma il mio inferno continua”, afferma lui, perché mentre doveva difendersi dall’accusa di aver abusato dei suoi figli, si era aperto il procedimento per l’affido davanti al Giudice civile che gli vietò qualsiasi diritto di visita: dal 2010 al 2015 non ha mai visto i suoi bambini. Dopo l’archiviazione della prima indagine, il Giudice della causa civile gli concede di sentire i bimbi soltanto un’ora alla settimana al telefono, ma, ben presto, la madre riesce ad interrompere anche questo contatto. Nel frattempo lui diventa per tutti “il mostro”. Anche per i due figli inizia un calvario, diverso dal suo. Mentre combatte per difendersi dalle accuse, i due bambini vengono sottoposti a decine di perizie, di volta in volta richieste a consulenti, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, dai Magistrati che, in sede penale, civile e dei minori, si occupano del caso.
Verso la fine del 2014, un Giudice aveva autorizzato il padre ad incontrare i figli in area protetta, un luogo neutro, alla presenza dei servizi sociali e della madre. L’incontro vi fu, nel 2015, ma non appena gli assistenti sociali nelle relazioni evidenziarono un buon rapporto dei bambini con il padre, non appena fu chiaro che erano felici di rivederlo, la madre interruppe le visite protette e accusò i servizi sociali di incompetenza e complicità. Fu proprio questo a spingere uno dei Magistrati del processo per abuso sessuale a rivolgersi ad un esperto nazionale in materia, uno psichiatra che sulla vicenda scrisse ben due relazioni, una nel 2016 ed una nel marzo 2018. All’improvviso, lentamente qualcosa sembrava cambiare. Questo papà trova uno psichiatra che ha il “vizio” di ascoltare prima di giudicare e soprattutto che ama la ricerca della verità.
Già nel 2016 il consulente evidenziava quanto già emerso in precedenza nelle perizie degli psicologi di Messina e dei servizi sociali. Emergeva forte il rischio di PAS, sindrome di alienazione genitoriale, che origina quando i minori vengono fagocitati nel conflitto tra i genitori. Nel 2016 i piccoli manifestavano i pri sintomi ed il perdurare del conflitto genitoriale rischiava di acuirli.
I bambini a volte, per la paura di deludere o ferire la madre, non manifestano i bisogni affettivi e le danno automatico appoggio usando quelli che vengono definiti “scenari presi in prestito”. È una delle situazioni in cui il bambino non sa come dividersi, non interiorizza una relazione genitoriale, una interazione genitoriale, non percepisce la presenza di due genitori e, allora, decide di scindersi a sua volta a metà.
La sentenza di primo grado arriva nell’ottobre del 2017: il “nostro” padre è “assolto perché il fatto non sussiste”. La Procura non propone appello e, nel settembre del 2018, la sentenza diventa esecutiva.
Ma la giustizia arriva (come in tanti altri casi analoghi) troppo tardi e, forse, si palesa anche assolutamente incapace di riparare i danni irreversibili conseguenti. A dispetto della assoluzione, la madre impedisce ogni tipo di contatto del padre con i bambini, nel frattempo cresciuti. Lo psichiatra è, quindi, nuovamente chiamato a scrivere una relazione, nel marzo 2018, dalla quale si evidenzia che, a questo punto, i due bambini possono sviluppare disturbi psicopatologici e, perdurando il comportamento ostativo della madre che impedisce qualsiasi contatto, invita a predisporre un affidamento etero-familiare dei minori con collocamento presso una famiglia disponibile o una comunità.
Nel 2018 l’assoluzione diventa definitiva. In quegli stessi giorni la madre lascia Messina e senza il consenso del padre porta i due bambini con sé in un’altra regione. Per questo padre ricomincia il calvario.
Questa non è una storia a lieto fine. Non lo è per il padre che vive ancora nell’inferno di essere visto dai figli come un mostro; che non riesce ancora a vederli e deve votare la sua vita a spiegare continuamente cosa è successo e cosa non è successo e non lo è, soprattutto, per due bambini, che dal 2008 non hanno un rapporto normale e sano con il loro papà. Per 5 anni non lo hanno visto e sono stati bombardati da una visione distorta dei fatti. Dal 2010 al 2018 hanno trascorso l’infanzia tra aule di Tribunale, colloqui con psichiatri, assistenti sociali. Quelle rare volte che hanno giocato a palla col padre o lo hanno abbracciato è stato in un luogo estraneo e sotto occhi estranei: hanno perso momenti che nessuno restituirà più, sono stati usati come un’arma, sono rimasti vittime inconsapevoli di un sistema. Non hanno perso solo il diritto ad un padre, hanno perso il diritto alla serenità, all’infanzia, all’amore.
Da dieci anni questo papà compra regolarmente regali ai suoi figli a Natale, a Pasqua e per i compleanni. Ha una stanza piena di pacchi che spera un giorno di poter scartare con loro: per la giustizia italiana è innocente, assolto “perché il fatto non sussiste”, per i suoi figli è un “estraneo”, per il mondo intero un “mostro”, per la sua ex moglie era il “bersaglio”. No, questa non è una storia a lieto fine.
Perché esordire raccontando questa storia? Perché scrivere di questa storia decidendo, a torto o a ragione, di non tralasciare neanche un singolo passaggio dell’accaduto, quasi con piglio giornalistico? Semplicemente perché è sempre più frequente leggere storie “come questa” che ti strozzano il respiro e che ti suscitano tanti interrogativi che, purtroppo, resteranno, nella maggior parte dei casi, senza risposta e perché, forse, è giusto sapere cosa si nasconde dietro una denuncia di falsi abusi sessuali su minore.
E perché, a volte, sentire pronunciare da un Giudice di un nostro Tribunale una “assoluzione con formula piena perché il fatto non sussiste” non è sufficiente per cancellare un passato da dimenticare e un futuro senza prospettive e per vedere adeguatamente punito chi ingiustamente e per effimera vendetta ti ha voluto colpire.
Sappiamo bene che la separazione ed il divorzio sono il luogo dove si consuma uno degli eventi più dolorosi dell’esistenza umana. A volte, come ben noto, il conflitto sconfina nella patologia: dopo un primo momento fisiologico la guerra sembra autoalimentarsi in un circuito con un livello di intensità e di tensione sempre crescente e inarrestabile. Purtroppo, il “territorio” di guerra è quasi sempre rappresentato dai figli stessi, poiché il loro “possesso” ha la dimensione della vendetta e della conquista.
Uno degli espedienti più spregevoli, ma più diffusi in casi estremi, messi in atto per ottenere l’allontanamento dell’ex coniuge ed impedirgli qualsiasi contatto con i figli è la denuncia per sospetto abuso sessuale e/o maltrattamento. A fronte di queste denunce, le Autorità Giudiziarie sospendono i contatti tra il genitore indagato, sospettato, ma, purtroppo, immediatamente “marchiato” e i figli. Il “mobbing genitoriale” mira alla espropriazione della genitorialità dell’altro, nonché a procurare un grave pregiudizio al benessere del genitore mobbizzato, ancora meglio, se è possibile, procurargli autentica sofferenza. Per ottenere l’effetto desiderato, la campagna di delegittimazione legale arriva a concretizzarsi, nella forma più cruenta, attraverso manovre strumentali, finalizzate a dimostrare atti abusanti/maltrattanti inesistenti.
Il moltiplicarsi irrefrenabile di questo fenomeno nella nostra realtà sociale ha portato quasi a doverlo considerare come una categoria specifica: abuso dell’abuso e del maltrattamento. In realtà, il problema dei “falsi abusi” resta ben distinto dalla questione dell’abuso in sé per sè e l’una fattispecie non esclude l’altra. Infatti, nella indagine relativa alla esistenza di un abuso sessuale si corre, da un lato, il rischio di considerare come non accaduti dei veri abusi (falsi negativi) e, dall’altro, il pericolo di considerare come abusi fatti che non lo sono (falsi positivi).
Il nostro sistema ha dimostrato di non essere ancora in grado di rendere le giuste risposte, anche autoritarie, dinanzi a una problematica che presenta profili assolutamente gravosi e di cui ci si è preoccupati, nel nostro Paese, in tempi relativamente recenti (in ritardo, come al solito), mentre realtà come l’America affrontavano il problema sin dai primi anni duemila.
Nei fatti, è stato dimostrato che una falsa denuncia può anche essere sostenuta dal minore a causa di meccanismi non coscienti, quando, per la sua età, non è in grado di distinguere tra fantasia e realtà o quando interpreta erroneamente un fatto o le domande dell’adulto o quando è indotto strumentalmente a memorizzare fatti mai accaduti o quando colma vuoti di memoria con informazioni (magari errate) che ne possano dare un senso. Da questo punto di vista, i Centri Antiviolenza sono stati e rimangono una conquista di civiltà faticosamente assicurata sulla strada della lotta contro la violenza sulle persone. Purtuttavia, a volte restano coinvolti nell’uso strumentale della loro stessa funzione. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di cercare protezione da un soggetto abusante all’interno di un Centro. Tuttavia la percentuale anomala delle accuse totalmente prive di fondatezza (secondo gli ultimi rilievi statistici più dell’80%) fa emergere due principali filoni di obiettivi occulti: ottenere vantaggi economici, in cambio della remissione di querela e ottenere l’estromissione del soggetto accusato dal processo di crescita dei figli.
Nella quasi totalità dei casi la denuncia del falso abuso/maltrattamento – che muove da un genitore o da un familiare o anche da un terzo che ha raccolto il racconto del minore e provvede a renderne conto al medico del Pronto Soccorso, ai Servizi Sociali, agli psicologi di turno, ai Carabinieri – viene acquisita senza alcun rispetto ai fini del giusto processo e in spregio degli strumenti chiari e riconosciuti dalla comunità scientifica, quali, ad esempio, la Carta di Noto (aggiornata ad ottobre 2017), che detta le linee guida per l’esame del minore in caso di sospetto abuso sessuale.
Nel corso di quello che resta un vero e proprio incidente probatorio il bambino potrà essere (o, forse, sarebbe meglio dire sarà, visti gli ultimi tristi casi di cronaca) oggetto di pressioni e domande suggestive, in spregio, evidentemente, proprio dei principi di quella Carta di Noto innanzi citata che dovrebbero, invece, coscienziosamente guidare l’inquirente nella ricerca della verità proprio attraverso le risposte del minore. Le operazioni immediatamente susseguenti il racconto originario vengono, però, troppo spesso condotte in assenza di videoregistrazione, in assenza del Magistrato competente, nella più completa inosservanza delle regole necessarie ad assicurarne la genuinità, ma questo compromette la genuinità dell’ascolto ed impone, per il rispetto della procedura, che il bambino debba essere necessariamente riascoltato. La verità è che la realtà ci ha raccontato troppo spesso che il processo è un processo di tipo “verificazionista”: di abuso si parla e l’abuso si deve trovare.
Il dettato normativo dell’art. 368 c.p. prevede che: “Chiunque, con denuncia, querela, richiesta, o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità Giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se si incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni o un’altra pena più grave”.
Il bene giuridico tutelato dalla norma, quindi, viene identificato non solo nell’onore e, eventualmente, nella libertà del soggetto calunniato, ma anche nel regolare svolgimento dell’amministrazione della giustizia da parte dello Stato. Quindi si tratta di un reato plurioffensivo. Purtroppo, però, anche la tendenziosità più evidente della denuncia non è sufficiente a dimostrare di per sé il dolo. Generalmente, infatti, è sempre al “racconto spontaneo del bambino” ed alla responsabile necessità di tutelarlo pienamente che si attribuisce il ricorso alla Giustizia. E, così, la falsa denuncia non viene quasi mai punita o, purtroppo, la punizione per il soggetto calunniante non è mai adeguatamente proporzionata ai danni irreversibili che una falsa denuncia può originare nella vita personale, relazionale e anche professionale del soggetto accusato.
Quella delle false accuse in ambito separativo è una tematica molto attuale che, negli ultimi anni, ha coinvolto nel dibattito tutti gli operatori delle diverse aree coinvolte: forze dell’ordine, avvocati, magistrati, psichiatri, psicologi, consulenti. Nell’ambito dei procedimenti civili per le separazioni giudiziali, le false accuse sono una realtà crescente che merita sicuramente un autonomo spazio di riflessione e di discussione, poiché assumono il “vantaggio” di uno strumento frequentemente adottato al fine di ottenere un affidamento esclusivo e precludere al coniuge accusato una frequentazione paritaria dei figli.
“Secondo la letteratura recente, tra l’85 e il 90% dei casi sono le madri ad avanzare un’accusa nei confronti dell’ex marito, accusa che in otto casi su dieci circa si rivela falsa (falso positivo). Le accuse più frequenti sono anche le peggiori ed in parallelo particolarmente lunghe nel decorso giudiziario e pericolose le conseguenze psicologiche nel contesto familiare” (così, Dott.ssa Cristina Colantuono e Dott.ssa Cecilia Berenato, in “Il fenomeno delle false accuse: rischio o protezione per i minori?”, in Istituto per lo Studio delle Psicoterapie on line, del 19/9/2019).
La Dott.ssa Carmen Pugliese, Pm che per anni si è occupata di maltrattamenti e violenze in famiglia, all’apertura dell’anno giudiziario 2009 rilevò che: “Solo in due casi su dieci si tratta di maltrattamenti veri. Il resto sono querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione. L’impressione è che alcune mogli tendano a usare Pm e polizia giudiziaria come strumento per perseguire i propri interessi economici in fase di separazione”. Disarmante!
È pur vero che i cosiddetti falsi positivi non sempre presuppongono una mala fede: i segni di disagio mostrati dal figlio a seguito o in previsione degli incontri col padre possono essere interpretati dalla madre come conseguenza di atteggiamenti inadeguati di quest’ultimo. Il problema è che proprio quando le strumentalizzazioni non sono consapevoli sorge la maggiore difficoltà ad intervenire da parte dell’Autorità Giudiziaria. Come individuarle? Quali sentieri deve percorrere, in queste situazioni, il procedimento investigativo? La preoccupazione della madre e le sue insistenti domande possono indurre il bambino a mostrare uno stato di disagio ulteriore ed a risponderle positivamente confermando i suoi dubbi.
Nel febbraio 2009, la Corte di Cassazione (con la sentenza n. 8809 del 27/2/2009 – III Sezione Penale) sottolineava che “i bambini non mentono consapevolmente… . Ne consegue che il loro racconto deve essere contemperato con la consapevolezza che gli stessi possono essere dichiarati attendibili se lasciati liberi di raccontare, ma diventano altamente malleabili in presenza di suggestioni etero indotte e che se interrogati con domande inducenti tendono a conformarsi alle aspettative del loro interlocutore”. D’altro canto, segni corporei come graffi e rossori genitali potrebbero anche suggerire alla madre un contatto improprio avuto col coniuge, piuttosto che il segno di un’attività automanipolatoria. False denunce, in realtà, possono conseguire anche a dichiarazioni non veritiere fornite dello stesso minore schiacciato dal contenzioso tra i genitori.
“Secondo la letteratura, le false accuse trovano talvolta luogo all’interno di contesti relazionali problematici o in presenza di particolari condizioni cliniche nel genitore accusante” (“Fraintendimento, Psicopatologia e False Accuse: analisi di un caso”, di S. Pezzuolo, G.B. Camerini, in Psicologia & Giustizia, Anno XVI, numero 2, Luglio – Dicembre 2015. Questa è una disamina molto interessante, anche a livello statistico).
In alcuni studi si è in presenza di quadri psicopatologici irrisolti, come nel caso di madri particolarmente sensibilizzate ai segnali di abuso a causa di una loro personale storia di maltrattamenti subiti. Esistono, inoltre, patologie relazionali che si rendono particolarmente evidenti nel momento del contenzioso familiare, descritte dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner con il nome di “Sindrome da Alienazione Parentale” (PAS, dalla formula in inglese); sindrome integrata da una “programmazione” di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porterebbe i figli a dimostrare avversione e rifiuto verso l’altro genitore (“genitore alienato”).
Non è tuttavia infrequente, ed è il caso da cui siamo partiti, che le denunce siano costruite ad arte, nella maggior parte dei casi dalle madri, al fine di limitare l’esercizio della paternità, strumentalizzando, appunto, la situazione sottoposta all’attenzione del Giudice. Il maggior numero di denunce è, infatti, a carico del padre (circa il 90,4 %) e l’accusa prevalente è quella di abuso sessuale. Uno studio condotto su un campione di minori coinvolti in procedimenti legali relativi ad una denuncia di abuso ha evidenziato come la maggior parte di falsi positivi si orientava a carico di familiari (padre o convivente della madre) piuttosto che extrafamiliari, dato conforme alla grande quantità di denunce emesse all’interno di coppie genitoriali ad alta conflittualità.
Le conseguenze di una denuncia di abuso sono molteplici e colpiscono diverse aree di interesse legislativo e personale. Un dato spesso sottovalutato dal genitore accusante, però, sono le conseguenze psicologiche che l’accusa, e tutto l’iter che ne consegue, ha sul figlio minore, a maggior ragione se trattasi di false accuse.
A seguito della segnalazione, gli organi giudiziari competenti intervengono, insieme alle altre forze psicosociali, al fine di tutelare il minore dalla notizia di reato e per accertare la reale presenza dell’abuso. Il procedimento è un momento assolutamente delicato, data la grande variabilità degli esiti clinici delle vittimizzazioni, fortemente connessi alla commistione tra fattori di rischio e protettivi presenti nel soggetto e nel suo ambiente sociale e familiare.
Il coinvolgimento del minore è, seppur teso a proteggere il minore stesso e ad estrometterlo nel più breve tempo possibile dal procedimento, un evento estremamente stressante e numerosi sono gli studi che attestano, in maniera drammatica, la insussistenza di differenze significative nei sintomi da stress mostrati tra bambini realmente abusati e falsi positivi (così, Dott.ssa Cristina Colantuono e Dott.ssa Cecilia Berenato, in “Il fenomeno delle false accuse: rischio o protezione per i minori?”, in Istituto per lo Studio delle Psucoterapie on line, del 19/9/2019).
Non dimentichiamo che dalla denuncia possono derivare provvedimenti, seppure temporanei, che incidono sulle relazioni familiari, come l’allontanamento del padre o la possibilità di incontrarlo, e queste situazioni comportano una vittimizzazione secondaria ancora più pericolosa. Per tali motivazioni nei minori coinvolti in false accuse aumenta significativamente la probabilità di sviluppare veri e propri sintomi psicopatologici come disturbi d’ansia, depressione e sintomi post traumatici. Gli stessi genitori accusati ingiustamente subiscono il coinvolgimento in un iter traumatico che lede, in primis, la loro stabilità fisica e psichica, ma anche le certezze e le loro componenti più esistenziali. Oltre a privarli definitivamente di tanti attimi di vita dei propri figli che non potranno recuperare mai più.
Le false denunce rappresentano, quindi, un rischio molto pericoloso per tutto il nucleo familiare: sia per il potenziale “autore”, sia per la vittima; conseguenze che hanno immediate ripercussioni sullo sviluppo affettivo, psicologico e, quindi, comportamentale del minore e che potrebbero portare ad effetti indelebili a breve, medio e lungo termine.
I professionisti della salute mentale, sia nel pubblico sia nel privato, dovrebbero battersi affinchè sia dato sempre maggiore risalto ad un monitoraggio preventivo delle famiglie e del funzionamento delle relazioni tra i membri, alla ricerca di fattori protettivi e di rischio, operando puntualmente una analisi del contesto nel quale la denuncia è maturata ed un adeguato approfondimento volto a recuperare eventuali memorie episodiche ed a comprendere il grado di suggestionabilità del minore.
Proprio in questo contesto, anche abbastanza articolato, non sono mancati i casi di cronaca che hanno attirato l’attenzione del lettore interessato e, probabilmente, particolarmente turbato. Il caso di Matteo Sereni, calciatore professionista ex portiere di Torino, Lazio, Sampdoria, Brescia, è stato assolutamente eclatante in tal senso, sia per i presupposti da cui muoveva (accuse di abusi sessuali sulla figlia minore), sia, tanto più, per le conclusioni a cui sono giunti i Giudici, con il totale proscioglimento dell’accusato, nel marzo del 2021, all’esito di un procedimento che aveva avuto inizio negli anni 2009/2010: da quel momento Matteo Sereni non ha potuto più vedere i suoi figli. “Nessun abuso sui figli minori” hanno sentenziato i Giudici…ma, al di là del mero risultato processuale, anche questa non è una storia finita bene.
Per l’Avv. Giacomo Francini, che ha assistito Matteo Sereni nel suo lungo percorso di battaglia giudiziaria, il cortocircuito si è creato perché “i minori sono stati a lungo interrogati con modalità inappropriate e potenzialmente suggestive di falsi ricordi. … Il Tribunale, nell’archiviazione, pone l’accento sulla inadeguatezza della modalità di assunzione delle testimonianze, anche dai consulenti tecnici in ambito civile e penale” (estratto da “Matteo Sereni assolto da pedofilia/Accuse infamanti da ex moglie Silvia Cantoro”, di Silvana Palazzo, in Il Sussidiario.net il quotidiano approfondito, del 15/3/2021).
“Nel caso in esame – scrive il Gip di Torino, Dott.ssa Francesca Firrao, nell’ordinanza di archiviazione del procedimento su Sereni – quasi tutti i Magistrati che se ne sono occupati hanno evidenziato che i minori sono stati in più occasioni sentiti con modalità inappropriate (domande incalzanti e suggestive)”. Nei diversi procedimenti, si sono alternati negli “interrogatori” una serie di consulenti tecnici in ambito sia penale, che civile, come pure gli “adulti di riferimento”, sia dentro che fuori le aule di giustizia. “L’argomento è stato affrontato senza cautele”, sottolinea il Giudice e “nel tempo le modalità di audizione sono state non rispettose delle cautele richieste da tutti gli esperti del settore per preservare la genuinità del racconto da parte di bambini così piccoli”: davvero una affermazione pesantissima.
Si tratta, a ben vedere, dello stesso problema emerso nel caso di Bibbiano, su cui ancora indaga la Magistratura, e in tutti gli scandali precedenti per abusi su minori in realtà mai avvenuti (dai Diavoli della Bassa modenese a Rignano Flaminio al caso di Angela Lucanto). Un problema che vede al centro una rete di psicologi, assistenti sociali ed educatori che, molto spesso, non si rifanno alle regole individuate dalla comunità scientifica (come le linee guida della Consensus Conference o la Carta di Noto), bensì ad approcci dal taglio marcatamente inquisitorio ed intimidatorio.
La materia è certamente delicata ed esistono, come detto, norme, procedure specifiche e linee-guida (per esempio quelle contenute nella Carta di Noto aggiornata nell’ottobre del 2017) che devono essere osservate, perché è necessario impedire che, in conseguenza di un atteggiamento più o meno consapevole di un adulto che chiede al bambino di raccontare un fatto, si generino dei “falsi ricordi”.
La materia degli abusi sui minori, e del connesso rigore valutativo che si impone nelle pronunce giudiziali in simili fattispecie, ha assunto, negli ultimi anni, un’importanza sempre crescente, spesso amplificata dal clamore mediatico riservato a quegli stessi fatti di cronaca di cui abbiamo voluto far cenno innanzi in piccola parte (senza voler assolutamente attribuire patenti di maggiore rilevanza e notorietà a taluni, anziché ad altri non citati), in cui si è, fortunatamente, talvolta scongiurato il pericolo che venissero accreditate come veritiere ipotesi di falsi positivi, seppur con drammatiche ed irreversibili conseguenze sotto il profilo umano per l’accusato e per gli stessi minori coinvolti.
Da un punto di vista squisitamente processuale, la prima questione che dovrebbe essere focalizzata è quella relativa all’attendibilità delle persone offese e al confronto con i testimoni di riferimento. Com’è noto, la valutazione dell’attendibilità oggettiva dei fatti raccontati dovrebbe essere colta dall’osservazione della genesi del racconto, della sua spontaneità, della coerenza interna, della specificità dei dettagli e, eventualmente, della sua corrispondenza rispetto ad ulteriori elementi acquisiti al processo, non senza tenere in seria considerazione il più ampio contesto sociale, familiare e ambientale, al fine di escludere l’intervento di fattori inquinanti in grado di minarne la credibilità.
Da un lato, al Giudice è richiesta una valutazione approfondita, condotta con spiccata sensibilità, su fattori di debolezza della prova che potrebbero definirsi intrinseci del racconto, quali: la limitatezza della capacità mnesica del minore, da correlarsi necessariamente anche all’età del dichiarante; la facilità di confusione tra ciò che è fantastico e ciò che è reale; il maggiore o minore grado di suggestionabilità del bambino, sia nei confronti del mondo esterno, sia nel raffronto con gli adulti o personaggi per lui significativi. Dall’altro, invece, particolare attenzione dovrebbe essere posta nella valutazione di fattori estrinseci, quali le metodologie utilizzate nella procedura di ascolto o altri fattori esterni di condizionamento del minore, capaci di inficiare l’attendibilità, sul piano fattuale, del racconto reso.
In realtà, non sempre le dichiarazioni del minore trovano un riscontro in elementi obbiettivi suscettibili di suffragare il racconto narrato e non è nemmeno corretto ricorrere da subito all’identificazione del cosiddetto Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) in ambito forense, qualora l’evento traumatico non sia stato prioritariamente accertato, non essendo possibile, in simili circostanze, pervenire ad un sicuro giudizio di sussistenza di un nesso eziologico.
Una delle maggiori difficoltà che è dato riscontrare nel vagliare la credibilità di un racconto di asserite violenze sessuali subite da parte di un soggetto minorenne è proprio quella relativa all’assenza di precisi indicatori d’abuso. L’art. 18 della Carta di Noto evidenzia che: “Non esistono segnali psicologici, emotivi e comportamentali validamente assumibili come rivelatori o indicatori di una vittimizzazione. Non è scientificamente fondato identificare quadri clinici riconducibili ad una specifica esperienza di abuso, né ritenere alcun sintomo prova di essi. Parimenti, l’assenza di sintomatologia psicologica, emotiva e comportamentale in capo al minore non può escluderli”. Così come, ai sensi dell’art. 19: “Non è possibile diagnosticare un disturbo post-traumatico da stress o un disturbo dell’adattamento ricavandone l’esistenza dalla sola presenza di sintomi, i quali potrebbero avere altra origine”.
Allo stesso modo, le Linee Guida SINPIA 2007 (15/2/2007), nella Raccomandazione 6.4.1, precisano che: “Non esiste una sindrome clinica caratteristica ed identificabile legata specificamente all’abuso sessuale. I disturbi psichici ad esso legati, che compaiono peraltro incostantemente ed in funzione dei fattori di rischio presenti e delle modalità (durata, intensità) con cui l’abuso è stato compiuto, possono corrispondere ad un ampio repertorio di risposte comportamentali comune anche ad altre condizioni cliniche (principio di equifinalità) (Fergusson e Mullen, 1999). Non esistono indici comportamentali ed emotivi patognomonici di abuso sessuale; in un’elevata percentuale di casi non si manifestano condotte problematiche. L’impatto di un abuso sessuale può variare qualitativamente e quantitativamente in funzione di variabili particolari … . Inoltre, in letteratura non esistono pareri concordi e studi che dimostrino l’esclusività di una o più condotte come criterio diagnostico. Questi indici possono essere riscontrati anche in minori che hanno subito traumi o stress familiari/ambientali di natura non sessuale. È, quindi, necessaria una particolare cautela prima di identificare un comportamento come possibile ‘indicatore’ di una condizione di abuso”.
L’importanza del procedimento investigativo diventa, allora, strategica ed essenziale.
Le Linee Guida Nazionali del 2010 sull’ascolto del minore come testimone (art. 4.3. Linee Guida Nazionali, L’ascolto del minore testimone, redatte dalla Consensus Conference, Roma, 6/11/2010), specificano che: “Le evidenze scientifiche non consentono di identificare quadri clinici riconducibili a specifica esperienza di vittimizzazione, né ritenere alcun sintomo prova di un’esperienza di vittimizzazione o indicatore di specifico traumatismo. In definitiva, non è scientificamente corretto inferire dalla esistenza di sintomi psichici e/o comportamentali, pur rigorosamente accertati, la sussistenza di uno specifico evento traumatico. … Nessun test psicodiagnostico è in grado di provare una specifica esperienza di vittimizzazione, come pure di discriminare bambini abusati da quelli non abusati. Non è attualmente sorretto da copertura scientifica attribuire a singoli segni psicodiagnostici, in special modo se derivanti da interpretazioni simboliche, il ruolo di “indicatori” di specifiche esperienze traumatiche o di vittimizzazione”. In effetti, come è stato correttamente osservato, “l’abuso è il trauma per eccellenza, ma la diagnosi di abuso non esiste”.
La Suprema Corte di Cassazione con una significativa sentenza ha statuito che: “In tema di valutazione della prova indiziaria nei reati sessuali, non è possibile ritenere che i sintomi siano la prova dell’abuso e che quest’ultimo sia la spiegazione dei sintomi (cosiddetto ragionamento circolare), in quanto non è consentito da un indizio sicuro in fatto, ma equivoco nell’interpretazione, concludere per la certezza dell’evento che rappresenta il tema probatorio, trasformandosi diversamente l’oggetto della prova in criterio di inferenza” (Cass., Sez. III Penale, del 12/11/2014, n. 3394 e Cass., Sez. III Penale, del 18/9/2007, n. 37147).
Si tratta di una pronuncia che rappresenta un punto fermo avverso quella che è una prassi cui si ricorre ormai con eccessiva facilità, ossia quella di procedere ad una sorta di affrettata e arbitraria inversione del nesso di causalità e individuare il fatto storico costituente reato a partire dai presunti esiti che lo stesso abbia prodotto, al contempo gridando all’untore senza aver svolto i necessari approfondimenti d’indagine. Ma è del tutto evidente (e i risultati della casistica che ripetutamente viene raccontata sulle pagine dei quotidiani ne è la riprova) che tale ragionamento, ispirato ad un aristotelico sillogismo, mostra immediatamente i suoi profili più deboli.
Infatti, data la multifattorialità del disturbo conseguente al presunto abuso, non si può desumere la presenza di una determinata causa a partire dalla valutazione dell’effetto; non si può considerare quale cartina di tornasole dell’avvenuto abuso l’eventuale sussistenza di sintomi, che, come detto, non possono essere considerati di valore inequivocabile.
Si è parlato, con particolare riferimento alla nota vicenda di Bibbiano, che tanti risvolti analoghi potrebbe avere con quelle di cui innanzi, “di quel grande fenomeno della modernità contemporanea che è una malintesa e indebitamente estesa psicologizzazione della vita. Vale a dire la tendenza sempre più forte – per comprendere i comportamenti dei singoli e definire quanto accade in molti ambiti della vita sociale – a ricorrere non già a una spiegazione fondata su una qualche concreta evidenza … bensì a ricorrere a un’interpretazione di tipo traumatico-psicologico, evocando per l’appunto l’abuso sessuale” (così, Ernesto Galli della Loggia, in Il Corriere della Sera del 28/7/2019).
Quella spiccata, ma pericolosissima, inclinazione a trovare se non prove “almeno” sintomi o spie di un problema psicologico in qualunque comportamento che si discosti, anche se di poco, dalla normalità è, proprio, un diverso aspetto della eccessiva psicologizzazione della realtà e diventa elemento fuorviante nell’ambito della indagine relativa all’accertamento della fondatezza del fatto costituente reato. Affermava Karl Popper: “… è facile ottenere delle conferme, o verifiche, per qualsiasi teoria, se quel che cerchiamo sono appunto delle conferme” (in Congetture e Confutazioni, 1963).
Storie come quella di Matteo Sereni, come quella di quel medico di cui abbiamo raccontato e di tanti altri padri inconsapevoli protagonisti di drammi umani non raccontati, nascondono vicende che non meritano la superficialità di una acquiescente accettazione di una mera conferma del fatto denunciato senza un rigoroso approfondimento investigativo sulla fondatezza del fatto storico costituente reato. E, allora, ci accorgiamo che il sospetto dell’abuso all’infanzia non è un problema di competenza esclusiva del Giudice e dello psicologo, ma è anche un problema criminologico ed investigativo. E non deve sfuggire, proprio per le problematiche diverse che si sono sviscerate, che il profilo investigativo e il delicato compito degli organi di polizia giudiziaria, degli avvocati, degli psicologi, dei servizi sociali assume un rilievo assolutamente predominante nel contesto descritto, purchè svolto con professionalità e serietà.
“Il contributo dell’esperto deve partire da qui affinché il giusto processo si possa avvalere del processo giusto nella definizione criminologica degli elementi probatori”, come sostenuto dalla Dott.ssa Loretta Ubaldi (“L’abuso dell’abuso e del maltrattamento. La Sindrome di Stoccolma per Procura”, in violenza-donne.blogspot.com). Non può certo sottacersi, peraltro, che, in questo scenario, la eccessiva durata del processo (male endemico mai guarito del nostro sistema processuale) riveste un ruolo non secondario nella alimentazione del problema dei falsi abusi e delle problematiche ad esso connesse.
Le strumentalizzazioni, immediatamente accertate, dovrebbero ricevere la giusta risposta repressiva dal sistema giudiziario, al fine di scoraggiare lo scandaloso ricorso al “ricatto processuale” per conseguire i propri scopi; invece, il nostro sistema rimane pericolosamente silente di fronte a drammi umani che meriterebbero ben diversa considerazione. Certo la diffamazione, la calunnia sono punite dal nostro sistema penale, ma, la risposta sanzionatoria è proporzionata al reato commesso dall’accusante nel caso di denuncia di falsi abusi? Forse bisognerebbe davvero interrogarsi sulla risposta seria che il sistema dovrebbe garantire, in un Paese di diritto, difronte ad una falsa denuncia di abuso, proprio per disincentivare l’abietto ricorso alla strumentalizzazione in ambito familiare. Dopo anni e anni di processo, una assoluzione con formula piena perché il fatto non sussiste, col fardello di una vita sbriciolata, di un rapporto disintegrato con un figlio che non vuole più vedere il padre che si è perso tutto il suo percorso di crescita, che “vittoria” è? Che giustizia è? E chi paga le pesanti conseguenze di una vita persa con i propri figli che non potrà più recuperarsi?
La eccessiva durata del processo, l’inefficienza operativa degli organi preposti all’ascolto del minore (presunto) abusato, gli interessi economici e personali che conducono il processo, in caso di denuncia di abusi, su sentieri lontani da quelli della verità, il mancato rispetto delle linee guida in materia di ascolto del minore, le lacune del procedimento investigativo, la affannosa e quasi forzata ricerca a tutti i costi di casi di “disagio”, sono tutti fenomeni che, purtroppo, inquinano pesantemente la ricerca della verità nelle fattispecie di denunce di abusi (o falsi abusi).
In una società che ormai sembra aver smarrito i suoi antichi criteri di orientamento e si dibatte, tra mille contraddizioni, per trovarne altri, bisogna prendere atto, però, che è arrivata la stagione in cui si rende necessaria una nuova semina culturale per poter affermare un percorso di cui restiamo, ancora oggi, pericolosamente orfani, affinchè i fenomeni innanzi detti, per quanto veri, non siano facili alibi dietro cui nascondersi; la verità è che se si è concepito un figlio con una persona, per pessima che essa sia diventata ai nostri occhi, comunque quella è la madre, comunque quello è il padre di quel bambino e, dinanzi a questa incontestabile verità, ogni desiderio di strumentalizzazione, di vendetta, di prevaricazione dovrebbe lasciare il passo al diritto di quel bambino a crescere, comunque, con due genitori e non con due belligeranti antagonisti. Dovrebbe, purtroppo.
* Avvocato. ISP Bari