di Leonardo Delli e Maria Stella Dallai
Leonardo Delli e Maria Stella Dallai sono due coniugi fiorentini, con quattro figlie ormai grandi. Lui è medico ospedaliero di medicina d’urgenza. Lei è infermiera in ambito preventivo, da sempre interessata ai paesi con problemi di povertà (nel 1992 partecipò ad una missione nei pressi di Nuova Delhi, nel 2015 è stata in Costa d’Avorio nell’ambito di un progetto di distribuzione di farmaci nei villaggi). Da due anni svolgono entrambi periodi di volontariato nell’ospedale pediatrico Saint Joseph di Bogou, in Togo. Mentre erano là, quest’anno, abbiamo chiesto loro di darci una testimonianza sulla genitorialità in quel Paese, così come appariva ai loro occhi. Questo che segue è il contributo che gentilmente hanno offerto al nostro notiziario.
Per il secondo anno consecutivo abbiamo trascorso un periodo presso l’Ospedale Pediatrico di S. Joseph, nel villaggio di Bogou in Togo.
Di nuovo ci stupisce l’enorme compattezza dei manghi, riparo e inaspettata fonte di frescura in questa zona rurale disseminata di capanne; di nuovo ci affascina l’apparente armonia tra natura (così rigogliosa prima della stagione secca), animali (piccole caprette, ciuchini, galline, porcellini che si aggirano indisturbati nel verde) e uomini e donne che, con movimenti lenti, si dedicano al lavoro nei campi.
Ma, soprattutto, ci colpisce il numero spropositato di bambini. Bambini che vediamo in ospedale sui materassini con i loro corpicini inerti, nudi o avvolti in panni bagnati per far abbassare la febbre, oppure, convalescenti, nella pagoda al centro della struttura, che passano le ore senza un pianto, senza un giocattolo. Bambini che vediamo da soli, camminare per le strade di terra o nei campi, come guardiani di buoi o capre, oppure in gruppo con indosso la divisa color cachi, diretti verso la scuola. Un giorno, usciti alle sei per la passeggiata del mattino, siamo giunti ad una grande radura: decine e decine di ragazzini e ragazzine hanno cominciato ad arrivare dai viottoli circostanti, non accompagnati da adulti, a piedi o in bicicletta; poi, attesa l’alzabandiera disposti in file ordinate al centro del campo, si sono diretti in silenzio verso la scuola fatta di muri di terra battuta e con tetto di foglie di mais.
E i loro genitori?
Ciò che salta agli occhi è la simbiosi fisica tra madre e figlio fino a tre anni di vita: le donne si muovono come se fossero tutt’uno con il piccolo che, dopo nove mesi nel grembo materno, è come se continuasse a crescere stretto sulla schiena di colei che lo ha generato. Abbiamo visto donne fare di tutto con il figlio sul dorso: trasportare sulla testa in contenitori merci per il mercato, acqua, sassi, lavorare nei campi, andare in bicicletta, addirittura insegnare! I bimbi accettano di crescere in quella postazione con docilità sorprendente, non piangono, non fanno capricci, guardano il mondo con i loro grandi occhi scuri o dormono. Ma, una volta scesi da quella schiena, pare inizi l’autonomia piu’ completa.
Forse è il momento in cui entrano di scena i padri? Ci guardiamo intorno, indaghiamo, ci interroghiamo: in realtà, in questa struttura sociale in cui spesso notiamo le donne separate dagli uomini, difficilmente vediamo maschi adulti in compagnia di bambini. E’ vero che Georges, il bambino con la malformazione cardiaca che vorremmo inviare a Khartum per l’intervento, quando abbiamo chiesto di parlare con la famiglia, è arrivato in compagnia del padre. E’ vero che vediamo dei padri fare la fila alla farmacia dell’ospedale o arrivare in moto alla struttura con dietro moglie e figlio che necessita di cure. Ma niente di piu’….
Finalmente in una stanza di degenza, insieme a tante madri sedute vicino ai loro figli (seppur senza fisicità di carezze, baci, abbracci), vediamo un padre accanto ad una bambina febbricitante per la polmonite. Ma Suor Nazarena ci ridimensiona subito: “Sicuramente la piccola è qui con il padre perché la madre deve partorire o ha appena partorito, altrimenti ci sarebbe lei con la figlia…”. Allora facciamo una domanda diretta a chi da piu’ di venticinque anni ha lasciato l’Italia per dedicarsi alla salute di questo popolo: “Suor Nazarena, ma in questa regione del Togo, i padri si occupano dei loro figli?” La sua risposta è “no”. Le donne lavorano e contemporaneamente allevano e sostentano i figli; un uomo può permettersi la poligamia perché ogni donna pensa al mantenimento economico dei figli che ha partorito.
Rimaniamo sinceramente un po’ delusi: forse le nostre osservazioni sono superficiali… Ce ne andiamo con la speranza che anche qui, nelle singole situazioni, i padri possano avere la possibilità psicologica e comportamentale di non essere solo padri biologici e distaccati, bensì padri partecipi di relazioni fondate sull’affettività, l’amore e la cura dei propri figli. Ci appare comunque chiaro quanto il senso di paternità non dipenda solo dalla volontà del singolo ma risenta e sia condizionato nella sua realizzazione da aspetti esterni, siano essi culturali, ambientali e religiosi.
In un contesto rurale e di povertà, i padri sembrano avere naturalmente un ruolo marginale nei primissimi anni di vita del bambino, che vive a strettissimo contatto con la madre nutrendosi del suo latte, prezioso soprattutto in assenza di altre risorse. Inoltre, in questa struttura sociale meno complessa della nostra, si fanno molti figli (ma la mortalità infantile é elevata) che diventano precocemente indipendenti, spesso abbandonando la scuola per i campi: è pertanto necessario un impegno genitoriale molto diverso da quello cui siamo abituati.