di Roberta Santoro *
La pronuncia emessa dalla Suprema Corte di Cassazione con la recente sentenza del 24 maggio 2018 n.12954 ha posto l’accento su tematiche relative ai minori sulle quali immutate restano interesse ed attualità. La vicenda, dirimendo questioni inerenti alla separazione in presenza di minore, tratta lo spinoso argomento dell’intesa tra i genitori circa l’educazione da impartire, (nello specifico quella religiosa), sondando la liceità del comportamento del padre di imporre alla figlia minore una religione diversa da quella dalla stessa praticata con la mamma, rilevando soprattutto l’aspetto del disagio, lamentato dalla stessa minore nel praticare questo “nuovo” culto.
Il padre, successivamente alla separazione, mutava il proprio orientamento religioso convertendosi ai Testimoni di Geova e seguendo con assiduità gli incontri del Tempio ai quali portava con sé la figlia minore, nonostante questa, accettando mal volentieri il cambiamento, continuava a preferire la religione cattolica già precedentemente professata e condivisa con la mamma. La Suprema Corte, in linea con la decisione della Corte di Appello di Firenze, che aveva già rilevato l’esistenza del “disagio” della minore a partecipare alle manifestazioni dei Testimoni di Geova, ne confermava le decisioni, nonostante i numerosi motivi di ricorso, attraverso i quali il padre invocava la modifica della decisione, lamentando sia la violazione della Costituzione sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La magistratura è stata più volte chiamata nel corso degli anni a risolvere questioni attinenti l’educazione religiosa dei minori, risolvendo controversie intrafamiliari avendo ad oggetto vari problemi come ad esempio quelle in cui il bene dell’educazione religiosa è condizionato dalle vicende della comunità familiare, ovvero quando la rottura della comunione ricade sui figli, oppure quando viene meno l’intesa coniugale quale presupposto fondamentale della famiglia, ovvero quando l’intollerabilità della convivenza rende necessaria la scelta di un genitore affidatario che sia in grado di poter seguire l’educazione e curare lo svolgimento della personalità minorile. In tutti questi casi, la scelta del coniuge affidatario spetta al giudice sia che vi sia contrasto tra i coniugi separandi circa l’affidamento, sia che i genitori siano addivenuti ad un accordo sull’assegnazione del minore ad uno di essi.
Nel corso degli anni, tutte le sentenze emesse si sono mosse in un’unica direzione, quello dell’esclusivo interesse del minore, in modo che esse non devono essere intese come premio o punizione per l’uno o l’altro genitore, ma devono avere come scopo quello di procurare il minor danno possibile al minore stesso, a causa della disgregazione familiare (numerose le decisioni in tal senso. Si ricordi la Cass., 14 aprile 1988 n. 2964, prima sentenza che ha fissato tale principio).
Un punto fermo della giurisprudenza rimane la certezza che la scelta del genitore affidatario non avviene in base a criteri discriminatori: in concreto, dall’affidamento non viene escluso il genitore che si è creato una nuova famiglia; né il genitore affidatario viene scelto in base alle sue idee politiche o religiose, cosa che comporterebbe la violazione degli artt. 3 e 30 Cost. Copiosa la giurisprudenza, in tale direzione, ad esempio la Suprema Corte con la sentenza 1401/1995, prima nel suo genere, ha confermato come il comportamento di un coniuge consistente nel mutamento di fede religiosa «si ricollega all’esercizio dei diritti garantiti dall’art.19 Cost, ma soprattutto non può avere rilevanza come motivo di addebito, o come ragione incidente nell’affidamento dei figli nel momento in cui non superi i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri di genitore».
Una volta superata la difficoltà di scelta del genitore affidatario, la giurisprudenza ha evidenziato nelle numerose pronunce come le decisioni relative all’educazione religiosa del minore devono essere adottate di comune accordo da entrambi i genitori, fatta eccezione nel caso in cui il contrasto tra i genitori perduri e l’intervento del giudice si renda quanto mai necessario. Appare evidente come il tema dell’educazione, e soprattutto in ordine all’educazione religiosa del minore, assuma un rilievo di notevole importanza, scaturito dalla considerazione che il minore è considerato una persona a tutti gli effetti, un cittadino, ancorché in formazione, facente parte della comunità sociale, a cui si riconoscono i diritti fondamentali d’ogni cittadino ed il diritto al pieno sviluppo della personalità.
Le sentenze emesse dai tribunali, ancora oggi, sempre più frequentemente si interessano delle crisi coniugali a seguito di conversioni religiose (avvenute durante il matrimonio o dopo la separazione), preoccupandosi maggiormente delle possibili influenze negative che i minori possano subire in questo periodo delicato di transizione e di disfacimento della comunità familiare. Nel decidere le questioni familiari rese più complesse dalla prevalenza delle posizioni individuali, il tribunale si deve attenere all’unico parametro essenziale, che risulta essere, per l’appunto, l’interesse del minore. È pur vero che il concetto può apparire quanto mai vago ed incerto: difatti, con tale terminologia ci si potrebbe riferire alla tutela delle inclinazioni ed affinità del minore, al soddisfacimento delle sue esigenze che potrebbero trovare maggior accoglienza in un genitore piuttosto che nell’altro, alla individuazione della persona maggiormente idonea a realizzare un dialogo costruttivo. Del resto, con tale termine si potrebbe evidenziare la necessità di attuazione del suo diritto all’educazione. In sostanza, la regolamentazione giuridica dell’interesse del minore impone una preferenza di quei valori che favoriscono la sua crescita, eliminando qualsiasi situazione di disagio che si viene a creare. Occorre, tuttavia, non fermarsi ad una mera elencazione, apparentemente astratta, di quelli che potrebbero essere ascritti tra i diritti dei minori meritevoli di tutela; bisogna, infatti, individuare gli strumenti necessari, idonei a renderne effettivo non solo il riconoscimento, ma anche il godimento.
Dall’esame della giurisprudenza più ricorrente, si può affermare che l’attuazione dell’interesse del minore è l’obiettivo principale di tutta l’attività di tutela giudiziaria: il giudice ricopre un ruolo importante poiché lo scopo principale del suo intervento si finalizza nel realizzare protezione e promozione della personalità minorile; nel sanzionare determinati comportamenti lesivi di fondamentali diritti della persona; nel rimuovere dal proprio compito il soggetto che trascuri i propri doveri; nel prescrivere ai genitori comportamenti da tenere, come nel caso in specie.
Nel caso preso in esame dalla Cassazione, se il genitore vuole convertire la figlia minore alla propria religione (modificata ex post), quando la minore è sempre stata abituata ad un altro credo, non può non tenere conto dell’eventuale disagio dalla stessa fatto palese. In casi come questi, tuttavia, la giurisdizione non può ricostruire i rapporti interpersonali strutturanti o svolgere una concreta funzione di sostegno. Per cercare di non compiere ulteriori errori in danno del minore è indispensabile non solo che il giudice, ma anche l’operatore sociale chiamato a coadiuvarlo nelle difficili e quanto mai delicate decisioni, siano adeguatamente specializzati e sappiano immedesimarsi con umiltà nella situazione su cui si incide, senza ricorrere a scorciatoie che, apparentemente, sembrano risolvere i problemi, ma che, invece, tamponano solo momentaneamente le situazioni senza risolverle. Dopo un’attenta valutazione, essi esprimono il loro parere con una relazione scritta da depositare agli atti del procedimento civile (anche se nel caso concreto non sembra che la valutazione delle reazioni della ragazza sia stata adeguatamente considerata). Questa maggiore attenzione nei confronti del minore e del suo sviluppo nelle concrete situazioni spazio-temporali, porta inevitabilmente a considerarlo come soggetto e non come «oggetto del potere educativo dei genitori» e nemmeno come «il fine passivo di una funzione esercitata da altri per lui».
È indubbio che la scelta e la pratica di una religione rientra nella manifestazione del diritto di libertà religiosa, tutelato dall’art.19 Cost., conseguentemente, la nostra analisi ci porta a ritenere ammissibile un autonomo diritto di libertà religiosa da parte del figlio minore e a domandarci se l’esercizio di questo diritto possa contrastare con la divergente decisione di uno o di entrambi i genitori. Una volta risolto il dilemma, diventa necessario definire il criterio cui ancorare la determinazione della maturità necessaria e sufficiente a sostenere la scelta del minore. Bisognerebbe fissare un limite d’età o lasciare al giudice la valutazione concreta circa il raggiunto discernimento nella singola ipotesi. Due sembrano le soluzioni percorribili: la prima si riassume nel rifiuto di un conflitto tra il diritto di libertà religiosa del minore e la potestà dei genitori, soprattutto con riguardo alla funzione educativa ed al diritto di scelta dell’indirizzo religioso del minore; la seconda, invece, ammessa la possibilità del conflitto, si articola seguendo il criterio di fissare un’età (o un livello educativo) idonea che consenta al minore una vera e propria scelta.
Spesso la questione è vista esclusivamente dalla posizione dei genitori, pur cercando di tutelare il minore. Infatti, la maggior parte delle controversie analizzate dalla giurisprudenza si occupa del conflitto che sorge fra i due genitori, in particolar modo in regime di separazione o di divorzio. Emerge, inoltre, una maggiore attenzione all’eventuale contrasto tra i genitori nella determinazione degli indirizzi educativi in tema di religione, piuttosto che l’attenzione al più importante aspetto del bilanciamento dei rapporti tra poteri dei genitori e diritto di libertà religiosa del minore. Nelle realtà esaminate, la problematica inerente all’educazione religiosa occupa un posto secondario in quanto si fa riferimento sempre e solo all’educazione.
Altro elemento importante è rinvenibile nel fatto che la Suprema Corte, nel caso in esame, nel porre l’accento sul criterio fondamentale cui il giudice deve attenersi, ovvero il superiore interesse del minore, sostiene che il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l’adozione di provvedimenti contenitivi o restrittivi nel caso si ravvedano conseguenze pregiudizievoli per la figlia. Si fa riferimento esplicito ad uno stato di disagio, patito dalla minore proprio nella sfera della scelta religiosa, venendosi a delineare un collegamento dannoso tra l’imposizione paterna e il diritto al credo religioso.
Vale la pena di chiarire che lo stato di disagio non va confuso con lo stato di bisogno. Nella pratica, non vi è una vera e propria distinzione tra stato di bisogno e stato disagio; si tende ad accomunare i due concetti, i quali, al contrario, se distinti concettualmente possono aiutare la giurisprudenza nel suo operato; in ogni caso sia lo stato di disagio sia lo stato di bisogno sovente sono presi in considerazione al fine di effettuare solamente una valutazione economica del danno, mentre dovrebbero essere considerati relativamente all’esercizio dei diritti del minore.
Lo stato di disagio è rappresentabile nel momento in cui si verificano le condizioni generali in cui il minore viene ostacolato dall’imposizione di un credo religioso nel perseguimento della sua personalità (art. 2 Cost.). Lo stato di bisogno, invece, si rinviene nel comportamento materiale rilevante che limita di fatto la sua vita di relazione sia interna che esterna al contesto familiare.
La decisione della Suprema Corte risulta innovativa, a mio avviso, in quanto prende in considerazione i diritti del minore, facendo riferimento anche alle peculiarità delle varie situazioni; solo con una maggiore definizione delle tipologie di disagio si può favorire in maniera concreta una tutela piena dei minori stessi, veri protagonisti di tali vicende. Possiamo affermare che si è così introdotto un nuovo collegamento tra la categoria “stato di disagio” e credo religioso, utilizzando l’interesse superiore del minore come rimozione dello stato di disagio.
* Professore aggregato di Diritti e religioni nelle società europee. Università degli studi di Bari “Aldo Moro”, Dipartimento di Scienze Politiche.