Niente più congedi alla nascita per i neo-padri. La Legge di Bilancio per il 2019, datata 31 ottobre 2018, non ha prorogato il finanziamento per il congedo obbligatorio per i papà, espressione di civiltà che faticosamente era approdata anche nel nostro Paese (buon ultimo in Europa) e “strumento molto importante” – come lo ha definito il Presidente dell’INPS, Tito Boeri – “per promuovere un’uguaglianza di opportunità”. Lo stesso Boeri, ricordo, nel novembre 2016 aveva appoggiato la proposta di legge che giaceva da un anno in Parlamento e che prevedeva 15 giorni obbligatori nel primo mese. Va anche precisato che Boeri – come molti di coloro che sostengono la bontà dei congedi paterni – vede il congedo nell’ottica, giusta per carità, del sostegno alla donna e al lavoro femminile (ed è anche per questo che la Legge di Bilancio è stata definita “maschilista”) mentre sembra ignorare i benefici effetti sul legame padre-figlio.
Quello di oggi è un grave passo indietro, che lascia perplessi sui criteri con i quali nella Legge si è tagliato qua e là per finanziare le tante promesse elettorali (togliere con una mano per dare con l’altra è un vecchio escamotage di ogni Governo, Berlusconi era in questo maestro). L’I.S.P. ha espresso il suo rammarico e la sua disapprovazione in un comunicato diffuso ai principali organi di stampa.
Vediamo in breve la (breve) vita di questo provvedimento. Varato con la Legge n. 92 del 2012, prevedeva nel triennio 2013-2015, a titolo sperimentale, un giorno obbligatorio di congedo per i papà alla nascita di un figlio (retribuito al 100%) e due facoltativi (alternativi al congedo della madre). La Legge di Stabilità per il 2016 aveva portato i giorni di congedo obbligatorio a due, sempre con retribuzione piena, mentre la Legge di Bilancio 2017 aveva stabilito per il 2018 quattro giorni obbligatori più uno facoltativo. Voluto a gran voce dai padri (l’I.S.P. lo aveva posto fra i suoi tre obiettivi prioritari nel ventennale della sua fondazione, nel 2008, e si era battuto per questo) era stato giudicato positivamente da medici pediatri, psicologi, pedagogisti. E, naturalmente, genitori. Poche le obiezioni (personalmente avrei trovato più logico che il congedo, per la sua ratio, dovesse essere goduto entro la prima settimana, o al massino entro il primo mese, e non entro il quinto, ma poco importa).
Si trattava di una iniziativa davvero minima se paragonata alla disponibilità di giorni per i neo-padri in altri Paesi europei: 10 giorni in Svezia, 14 in Francia (dal 2002), 15 in Spagna, 14 nel Regno Unito… E tuttavia era un passo avanti, un inizio, un segnale di comprensione e di civiltà, di conoscenza e di cultura. Perché un’ampia letteratura scientifica sottolinea la rilevanza di una immediata presenza paterna alla nascita, non solo per una evidente funzione di sostegno – fisico e psicologico – nei confronti della madre, ma per favorire un precoce attaccamento del padre al figlio, predittivo di un futuro legame più solido ed empatico. Anche i risultati erano stati incoraggianti: l’INPS aveva segnalato che il passaggio da uno a due giorni era coinciso con un forte aumento dell’utilizzo. Insomma, c’era di che ben sperare, visto che ogni anno il piccolo patrimonio di giornate si arricchiva. E pazienza se con questo ritmo ai 15 giorni auspicati dall’Europa saremmo arrivati dopo il 2030… E invece no!
Non ho visto in giro grandi reazioni, se si eccettua una petizione on-line, con raccolta di firme, lanciata da alcuni politici, docenti universitari, professionisti, imprenditrici. Iniziativa la cui notizia non è arrivata all’I.S.P., a ennesima dimostrazione dello scollamento e della mancanza di reciproca informazione che regna sul tema della paternità.
E pensare che nel 2010 il Parlamento Europeo aveva raccomandato ai Paesi membri, con la direttiva n. 9285, di prevedere 15 giorni retribuiti al 100%… (M. Q.)