di Silvana Bisogni *
La questione giovanile in Italia rappresenta uno dei massimi problemi in seno alla nostra società complessa, ormai datato da decenni. Riguarda il passaggio dei giovani alla fase adulta, l’entrata nei ruoli adulti: l’inserimento professionale, l’acquisizione di un lavoro, la prospettiva di una carriera, ma anche la creazione di una famiglia, avere figli, avere un’abitazione, avere un reddito autonomo. Il tema ha suscitato e suscita tuttora un dibattito a livello politico, sociale, culturale, ma l’aspetto che sembra prevalente è sicuramente quello economico e, più in particolare, la difficoltà dell’inserimento nel mondo del lavoro e, ancor più, la disoccupazione che nel mondo giovanile ha raggiunto livelli altamente preoccupanti. Secondo l’ISTAT, nell’ottobre 2021 il tasso di disoccupazione in generale, in Italia, è pari al 9,4%, ma tra i giovani di 15-24 anni risulta del 29,8%, tra i livelli più alti in Europa, dopo la Spagna e la Grecia.
L’oggetto della riflessione di questo articolo è la condizione di una particolare fascia di giovani che risultano disoccupati, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che presentano una specificità: sono giovani, con percorsi e storie di vita molto diversificate fra loro, accomunabili da un unico fattore: l’esclusione da percorsi d’istruzione, professionali o formativi. Non studiano, non hanno un lavoro e non sono impegnati in percorsi formativi: sono i NEET (Not in Education, Employment or Training), così definiti, per la prima volta nel 1999 in uno studio della Social Exclusion Unit, un dipartimento del governo del Regno Unito per indicare la condizione di giovani di età compresa tra i 15 e i24 anni. L’utilizzo del termine si è diffuso in altri contesti nazionali; in Italia il né-né come indicatore statistico si riferisce, in particolare, a una fascia anagrafica più ampia, la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni, anche se in alcune occasioni viene applicato a giovani fino a 35 anni, se ancora coabitanti con i genitori.
Secondo i dati EUROSTAT, i NEET in Europa sono il 14,2% della popolazione giovanile. l’Italia, con il 23,9% (2.116.000 individui), è il paese europeo con la più alta percentuale di giovani NEET. Quasi un italiano su quattro tra i 15 e i 29 anni non lavora, né studia, né si sta formando. L’Italia precede la Grecia (21,3%), la Bulgaria (18,9%), la Croazia (17,9%), la Romania (17,8%). Nel resto d’Europa il fenomeno è molto più contenuto: il 15,3% in Spagna, il 9,6% in Portogallo, nei Paesi Bassi 5,9%, in Svezia il 6,8%, a Malta 8,0%, in Austria 8,4%.
In Italia nel 46% dei casi i NEET hanno un’età compresa tra i 25 e i 29 anni, nel 38% tra i 20 e i 24 anni, mentre il restante 16% è al di sotto dei 20 anni di età. La distribuzione per titolo di studio mostra una predominanza di NEET in possesso del diploma (49%), seguono i giovani con basso livello di istruzione e con al massimo la licenza media (40%). Decisamente più bassa la quota di NEET in possesso della laurea (11%).
Quanto alla distribuzione territoriale dei giovani NEET in Italia, sono le regioni del sud a presentare i dati più alti. Sicilia, Calabria e Campania superano la quota del 30% di NEET, seguite da Puglia, Sardegna, Basilicata, Molise, Lazio, Abruzzo e Liguria con una quota tra il 20 e il 30%. Le regioni con le percentuali più basse sono quelle del nord-est, che hanno dati in linea o solo leggermente superiori alla media europea, seguite dalle altre regioni del centro-nord con percentuali tra il 15 e il 20%. Vi è poi nella fascia dei NEET una sovrarappresentazione dei giovani con cittadinanza non italiana: sono 300 mila stranieri, il 14,5% del totale (la popolazione straniera rappresenta l’8,5% della popolazione totale).
Nella Nota statistica redatta dall’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) I NEET possono essere raggruppati come
- “Persone in cerca di occupazione” (disoccupati di lunga e breve durata). E’ il gruppo maggioritario, rappresentando il 41% degli individui, in maggioranza maschi (55,4% del totale) e di età superiore ai 20 anni in circa 9 casi su 10.
- “Individui in cerca di opportunità”, impegnati in attività formative informali (ovvero che esprimono l’esigenza di formarsi) e che mantengono un elevato livello di attachment al mercato del lavoro (essendo in attesa di rientrarvi) e al sistema di istruzione. E’ il secondo gruppo per dimensioni (assorbe il 24,9% degli individui), per più della metà maschi e con una quota considerevole di under
- Individui indisponibili” alla vita attiva perché impegnati in responsabilità familiari o per problemi afferenti alle condizioni di salute. E’ il terzo gruppo per numerosità (19,5%) ed è costituito prevalentemente da donne nella maggioranza dei casi over 25.
- “Individui disimpegnati” che non cercano lavoro, non partecipano ad attività formative anche informali, non hanno obblighi socio-familiari o da impedimenti di varia natura e per lo più caratterizzati da una visione pessimistica delle condizioni occupazionali (così detti scoraggiati). E’ il gruppo minoritario, attestandosi su una quota pari al 14,5% del totale dei NEET, per lo più donne (di età compresa tra 15 e 19 anni nel 13,7% dei casi, tra 20-24 anni nel 37% e tra 25-29 anni nel 49,2%).
Nel Rapporto dell’EUROFOUND, i fattori socio-economici che possono favorire l’ingresso e la permanenza nella condizione di NEET sono:
- un basso livello di istruzione
- il genere (le donne hanno il 60% di probabilità in più di diventare NEET)
- un background migratorio
- una disabilità
- appartenere a famiglie problematiche: genitori divorziati, genitori disoccupati, genitori con un basso livello di istruzione
- vivere in aree remote
Da quanto emerge da studi e ricerche, appartenere al gruppo di NEET costituisce uno spreco del potenziale giovanile, ma anche conseguenze negative per la società e l’economia. Nel Rapporto EUROFOUND è rilevato il costo economico correlato al fenomeno dei NEET in Europa: una perdita economica pari a 153 miliardi di euro, l’1,2% del PIL europeo. A livello di singoli Stati, l’Italia guida la classifica dei costi economici del fenomeno NEET, con una spesa di 32 miliardi di euro, seguita da Francia (22 miliardi), Regno Unito (18), Spagna (16) e Germania (15). L’importo è stato calcolato considerando i costi diretti (pagamento di sussidi di disoccupazione e altri sussidi di welfare) e i costi indiretti (mancanza di reddito generato e tasse pagate e monetarizzazione dei costi sociali).
A livello di pubblica opinione, nei confronti di questa fascia di popolazione giovanile i giudizi sono diversi. Negli Stati Uniti, questi giovani sono a volte indicati come “generazione boomerang” o “Peter Pan”, a causa della propensione a ritardare alcuni dei riti di passaggio all’età adulta più a lungo rispetto alle generazioni precedenti, nonché della tendenza a vivere con i genitori per un periodo più lungo, principalmente a causa della crisi economica e lavorativa che non ha permesso loro di inserirsi nel mondo adulto con facilità.
Nell’Europa mediterranea si ritiene che questi giovani siano colpiti da “sindrome del ritardo”. In Asia e in particolare in Giappone sono descritti con il termine “single parassita”. In Italia – come si ricorderà – nel 2007 il ministro delle Finanze del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, coniò l’espressione “bamboccioni”, per indicare tutti coloro che sono attardati nel loro percorso scolastico e non hanno ancora finito gli studi o, avendoli conclusi, si fanno ancora mantenere dai genitori perché non hanno trovato lavoro.
Questa è la fotografia, necessariamente sintetica, del fenomeno. Ma quali sono le motivazioni profonde che hanno provocato e provocano ancora tale condizione? Il dibattito culturale tra esperti e studiosi sembra convergere sulla definizione di tre sottosistemi che contribuiscono al mantenimento e alle difficoltà di contrasto del fenomeno NEET. Sono istituzioni cruciali: il sistema educativo, il sistema di welfare e il mercato del lavoro. La riflessione sulle responsabilità del sistema educativo e del sistema del mercato del lavoro è fondamentale, e merita un approfondimento che potrà essere effettuato in altri articoli. In questa sede l’attenzione si accentra sul sistema del welfare, perché coinvolge direttamente la famiglia.
Il sistema di welfare italiano presenta tutti gli ingredienti per generare e far proliferare il fenomeno NEET. Assegnando un ruolo determinante alla famiglia e limitando l’intervento dello Stato ai casi in cui essa si dimostra incapace a soddisfare i bisogni, lega l’esperienza della transizione all’età adulta e l’integrazione socio–economica dei giovani alla capacità familiare. Questa configurazione del welfare impatta sulla lunghezza della transizione all’età adulta dei giovani italiani, che escono dalla casa dei genitori in media a 30,1 anni contro una media europea di 26,1 anni, un dato peraltro in continua crescita, che contrasta il percorso verso l’autonomia sociale ed economica, e contribuisce a incrementare il numero dei giovani NEET. Il prolungamento forzato della giovinezza, la dilatazione innaturale della fase dell’adolescenza e della gioventù non consente di entrare pienamente nei ruoli adulti, nella maturità, non solo economica, nel lavoro e nel reddito, ma anche e soprattutto al raggiungimento della personalità equilibrata e completa, sul piano psicologico e culturale, nella ricerca di una identità soggettiva, nella costruzione di una immagine di sé.
La permanenza in famiglia crea quella che oggi viene definita dai sociologi “la famiglia lunga”. Vi sono famiglie in cui sono compresenti tre generazioni che vivono sotto lo stesso tetto: i nonni, i genitori e i figli, che sono adulti. La presenza dei giovani in casa fino ad un’età adulta è un dato accentuato in Italia: tra i giovani fra i 25 e i 29 anni almeno il 50% dei maschi vive ancora con i genitori in famiglia. (per le femmine la percentuale è inferiore), contro il 43% della Germania e il 26% in Danimarca. E’ una situazione che crea problemi, perché è difficile per una persona che ormai è arrivata intorno ai 25-30 anni, e quindi è un individuo adulto, continuare a vivere in famiglia senza autonomia, senza essersi ancora misurato con se stesso.
In Italia si verifica dunque il rinvio dell’indipendenza dalla famiglia, rinvio che è collegato anche con la caduta del tasso di natalità. Il numero di figli per coppia, in Italia, risulta uno dei più bassi del mondo, e comunque il più basso in Europa. Questo fenomeno è una conseguenza della difficoltà, da parte della generazione dei giovani, di crearsi una famiglia. Dunque i giovani “esitano” ad assumersi la responsabilità della famiglia. Questa esitazione denota, forse, anche una mancanza di fiducia nel futuro, perché affrontare la maternità o la paternità è possibile solo se si ha veramente fiducia nel futuro. D’altra parte ci si sposa tardi e si ha il primo figlio ancora più tardi. Forse si ha paura ad assumersi delle responsabilità dopo che per tanti anni si è vissuti in una situazione di deresponsabilizzazione, nella quale erano i genitori a farsi carico delle responsabilità? Peraltro manca il sostegno pubblico, in termini di aiuto alle giovani coppie per l’acquisto o l’affitto della casa; così come mancano servizi in aiuto alla famiglia. E’ evidente la presenza di problemi di natura diversa, ma resta comunque la dipendenza economica e materiale dalla famiglia che si prolunga, e su questo si innesta in molti casi anche una difficoltà di comunicazione tra le generazioni.
A conferma di quanto affermato sulla deresponsabilizzazione dei giovani, nella Nota statistica dell’ANPAL si evidenzia che i giovani NEET hanno un coinvolgimento in percorsi di inserimento lavorativo presso i Centri per l’Impiego piuttosto limitato quando non del tutto assente. Infatti, il 45% dei giovani NEET non ha mai avuto un contatto con un Centro per l’impiego, a fronte del 53% che dichiara invece di averne avuto almeno uno, ma più di 3 anni prima (33,5%) e il 23% solo diversi mesi prima. Esiste, pertanto, una quota considerevole di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano che non ha mai incontrato un operatore del sistema pubblico dei servizi per il lavoro. Dato significativo per cogliere la effettiva ricerca di un lavoro.
Inoltre, va considerato anche il problema della socializzazione all’interno della famiglia, che negli anni ha perso la sua capacità di socializzare, cioè di educare, di far apprendere ai figli i modelli di comportamento, quasi una rinuncia a svolgere bene questo suo compito. Al posto della famiglia entrano altre forme di socializzazione, per esempio la televisione o i social media, di fronte ai quali i bambini, gli adolescenti sono lasciati molto a lungo. Inoltre i genitori oggi possono avere delle difficoltà a rapportarsi con i figli, perché i figli, i bambini maturano molto in fretta, più in fretta che nei decenni precedenti.
Si potrebbe dire che si è accorciata la durata dell’infanzia, ma si è allungata la durata della giovinezza che arriva fino a 30 anni. L’adolescenza arriva prima perché la fase dell’infanzia si è accorciata, perché i bambini piccoli sono esposti a una serie di stimoli, di messaggi per cui crescono rapidamente e pongono domande al mondo adulto molto prima di quando gli adulti se lo aspettino; molte volte i genitori non sono preparati, cosicché insorgono molto presto difficoltà di comunicazione. delegando alla società proprio queste funzioni prioritarie.
Dunque oggi i bambini diventano adulti prima e poi però restano adolescenti o giovani molto più a lungo. Da qui nascono problemi: la carenza di comunicazioni e la tendenza, in molti casi, alla deresponsabilizzazione dei genitori, alla negazione delle loro responsabilità genitoriali. Tutto ciò è la conseguenza delle difficoltà che inevitabilmente si hanno convivendo con una generazione che cresce rapidamente e che poi resta in casa molto a lungo. E così, non di rado, il genitore si accorge di essersi trasformato in un bancomat, come osserva lo psichiatra Paolo Crepet, cioè di avere un rapporto puramente di conferimento di denaro.
In questo quadro irto di difficoltà si inserisce la trasformazione del ruolo paterno. La funzione primaria del padre è stata, attraverso il suo esempio e la sua guida, quella di trasmettere ai figli la sua personale “visione del mondo” cioè la sua distinzione fra il positivo e il negativo, fra il bene e il male, nella riproduzione del sistema sociale, anche nella trasmissione dei valori etici del lavoro (sia a livello individuale che come “sistema del lavoro”) attraverso la trasmissione e l’appropriata interiorizzazione dei valori e delle leggi su cui questo si basa. Il padre come mediatore della realtà esterna e mediatore dei valori, attraverso cui i figli hanno un supporto valido per giudicare se stessi e la realtà che li circonda.
Le caratteristiche fondamentali che il ruolo paterno ha avuto in passato e che ancora, anche se in misura inferiore, cerca di mantenere sono essenzialmente quelle di figura autorevole, guida, sostegno economico. Tutte queste caratteristiche si sono molto modificate negli ultimi decenni, in parallelo con la trasformazione, ancora in atto sia pure con criticità, del ruolo femminile nell’ambito della famiglia e della società La crisi del padre che attraversa il nostro tempo è un fenomeno di «lunghissima durata”, che corrisponde alla crisi dell’immagine del padre tradizionale come «adulto roccia», caratterizzato da solidità e fortezza. Le sue radici vanno ricercate laddove essere padre ha rivestito un ruolo di guida educativa e di autorità morale. A ben guardare, l’assenza del padre corrisponde alla crisi dell’autorità genitoriale, quindi all’indebolirsi del codice paterno, alla eclisse dell’adultità tradizionale come base di riferimento del figlio.
Conclusioni. Il quadro della famiglia italiana può essere ricomposto in questi termini: adolescenza anticipata, induzione di aspettative precoci nei confronti degli adulti, che sono a loro volta impreparati, difficoltà dei genitori di fronte a queste aspettative, caduta della comunicazione, dilatazione dello spazio televisivo nella formazione dell’identità dei giovani, con la conseguenza che molti giovani si sforzano di vivere in uno spot eterno, come se fossero davvero dentro uno spot pubblicitario. E questo inevitabilmente finisce per creare difficoltà nella formazione della personalità e nel dar vita a forme di disagio.
* Sociologa dell’educazione. ISP Roma