di Silvana Bisogni *
Ogni anno, alla pubblicazione dei dati demografici italiani, stampa e programmi televisivi dedicano ampio spazio al commento sulla costante diminuzione delle nascite e dei problemi emergenti da una crescita zero della popolazione. Nel 2020 il quadro demografico è stato contraddistinto da un nuovo minimo storico di nascite dall’unità d’Italia: sono nati 404mila bambini.
Ma nessun organo di stampa dedica una qualche attenzione ad una fascia di neonati molto particolare: sono i bambini che nascono prima della trentasettesima settimana di gestazione[1] e che oltre ad essere pretermine, presentano anche la condizione di immaturità quando non tutti gli organi sono pronti per funzionare fuori dall’utero. Per questo motivo devono completare lo sviluppo in un luogo “artificiale”, in reparti speciali (Patologie Neonatali e Terapie Intensive Neonatali).[2] Infatti il bambino prematuro necessita di “un ambiente il più possibile simile a quello che ha prematuramente lasciato, un ambiente tranquillo e stabile che gli permetta di finire il suo sviluppo fetale e di aprirsi al mondo piano piano” (Caccia, cit. in Latmiral & Lombardo, 2000).
Eppure, nonostante su questi bambini siano pubblicati ogni anno studi e ricerche, organizzati convegni tra specialisti, indette iniziative per richiamare l’attenzione sul tema -come la Giornata Mondiale della Prematurità (World Prematurity Day, che si celebra il 17 novembre), istituita nel 2008 e riconosciuta dal Parlamento Europeo grazie all’impegno della European Foundation for the Care of Newborn Infants (EFCNI) – il tema stesso non sembra suscitare interesse a livello mediatico.
Secondo i dati dell’OMS, il fenomeno riguarda tutti i Paesi del mondo ed è sensibilmente aumentato negli ultimi 20 anni: ogni anno la condizione colpisce 15 milioni di bambini, 500.000 in Europa[3], con esiti quantitativi diversi nei vari Paesi e rappresenta la principale causa di morte dei neonati nel primo mese di vita. Vi è inoltre una disparità di incidenza del fenomeno tra diverse aree geografiche e Paesi: più del 60% delle nascite premature avviene in Africa e nell’Asia del Sud. Ma anche nei Paesi in migliori condizioni di vita, è rilevabile una notevole variabilità di esiti: negli Stati Uniti il 12% dei neonati nasce prematuro contro il 9% dei Paesi a reddito elevato e il 7% in Italia. Vi è inoltre una grande differenza nei dati di sopravvivenza di questi bambini tra i vari Paesi: la percentuale di bambini nati prima delle 28 settimane che non supera i primi giorni di vita è del 90% nei Paesi a basso reddito e del 10% in quelli ad alto reddito.
Secondo il Rapporto dell’OMS, molte nascite pretermine rimangano inspiegabili. Nei Paesi ad alto reddito il loro incremento risulta associato all’aumento dell’età materna al parto, al maggiore ricorso alle tecniche di riproduzione assistita con conseguente maggiore frequenza di gravidanze gemellari (in circa il 20% dei casi sono pretermine) ed anche ad alcuni stili di vita (fumo, consumo di alcol e droghe in gravidanza). A queste si sommano quelle dovuti a patologie come stress o gestosi, diabete, fibromi, malformazioni, distacco della placenta. Al contrario, le cause più frequentemente associate al parto pretermine nei Paesi a basso reddito sono le infezioni, la malaria, l’Hiv e la maggiore frequenza di gravidanze nelle adolescenti insieme alle condizioni di deprivazione sociale e alla mancata o carente assistenza alla gravidanza e al parto.
In Italia il fenomeno è seguito con attenzione dall’Istituto Superiore di Sanità, dall’Italian Neonatal Network e dalla Società Italiana di Neonatologia. Nel nostro Paese ogni anno nascono 40.000 bambini pretermine, con lievi variazioni quantitative a seconda degli anni, e costituiscono il 7% di tutti i nati vivi, in lieve prevalenza di sesso maschile e nelle regioni settentrionali. Tra di loro si verifica il 50% delle morti in epoca neonatale e a circa il 40% di quella infantile. Questi neonati presentano inoltre un elevato rischio di gravi esiti a distanza (neurosensoriali, cognitivi, respiratori, etc.) in termini di patologie e/o disabilità permanenti. Il fenomeno è considerato a forte rischio di aumento. Il ricovero presso i centri specializzati in genere dura tra i 3 e i 6 mesi, a seconda della prematurità del bambino e della evoluzione delle sue condizioni.
Una particolare attenzione è stata dedicata ai bambini nati prematuri durante l’epidemia di COVID 19. In uno studio epidemiologico nella Regione Lazio, pubblicato su Archives Disease in Childhood, in pieno periodo di lockdown (marzo, aprile e maggio 2020) si sono verificati due fenomeni contrastanti: una sensibile riduzione delle nascite pretermine e un aumento di bambini non vitali al momento della nascita. Si ritiene che la diminuzione delle nascite di prematuri[4] sia effetto del riposo forzato, della sospensione del lavoro fuori casa, della ridotta attività fisica a cui sono state costrette anche le donne in stato di gravidanza. Ma l’aumento dei bambini nati non vitali (+ 30% nel Lazio) può essere imputato al rinvio dei controlli sanitari ed anche ad una autoesclusione da parte di molte donne, che non hanno effettuato adeguati controlli in gravidanza per paura di contrarre l’infezione nelle strutture sanitarie. L’aumento della mortalità perinatale durante l’epidemia è ragionevolmente ipotizzato, pur nella carenza di dati, anche nelle altre Regioni italiane. Si sa per certo che è stato segnalato anche in altri Paesi.
A fronte di questi dati – drammatici – deve essere sottolineato un dato positivo: grazie al miglioramento della qualità e della sicurezza delle cure neonatali, all’eccellenza del personale e la disponibilità di tecnologie sempre più avanzate, l’88% dei bambini nati prematuri raggiunge un livello di benessere psicofisico, che consente loro una crescita costante, in tutto simile a quella dei bambini nati regolarmente; peraltro sono costantemente monitorati dalle strutture in cui sono stati curati, fino al compimento del terzo anno di età.
Conclusa questa premessa, la nostra attenzione si concentra sugli altri protagonisti del fenomeno: i genitori dei bambini prematuri. Se i bambini che nascono pretermine sono 40.000, è innegabile che ogni anno vi siano 80.000 persone, padri e madri, che ne condividono il problema e lo stress, sono definibili “genitori prematuri”, E’ questo un tema oggetto di numerosi studi di psicologi, che collaborano attivamente con i reparti di neonatologia. L’esperienza maturata nel corso degli ultimi decenni, in cui il fenomeno della prematurità è andato progressivamente aumentando, conferma il ruolo fondamentale dei genitori come “parte integrante della cura” per lo sviluppo dei bambini pretermine. Prima che la psicologia entrasse nei reparti di terapia intensiva neonatale (TIN), le cure e l’attenzione si concentravano unicamente sulla realtà fisica e biologica della prematurità, e sulle patologie del bambino. Grazie al nuovo approccio terapeutico con l’introduzione della psicologia, gradualmente le attenzioni si sono spostate anche sulla sfera emotiva e psicologica dei genitori.
La nascita di un bambino pretermine rappresenta per i genitori l’interruzione di un progetto generativo: è quindi naturale provare sentimenti come delusione, rabbia, paura della morte, smarrimento, dolore, frustrazione che inducono a emozioni, reazioni e meccanismi di difesa che accompagnano la coppia alla nascita del figlio prematuro. Questi genitori hanno una probabilità maggiore di sviluppare una sintomatologia depressiva o ansiosa, per il 10% si manifesta anche il Disturbo Post Traumatico da Stress: La situazione reale del bambino non è mai facile da accettare e il confronto con i sogni e i desideri della gravidanza è sempre deludente e frustrante, in quanto il bambino appare piccolo e malato. Vivono il senso di “colpa” per non aver messo al mondo un bambino sano, la sensazione di perdita di controllo degli eventi, in particolar modo di quelli riguardanti la sopravvivenza del bambino, la perdita del loro ruolo di responsabilità nei confronti delle scelte che riguardano il proprio figlio. In molti casi si manifesta anche una “anticipazione del lutto” quando, nel vortice delle emozioni, i genitori si convincono che la sorte del bambino è già segnata e che non sopravviverà.
Nei primi giorni dalla nascita del bambino i ruoli genitoriali cambiano. La madre non può vedere il bambino, almeno fino a quando lei stessa avrà bisogno di cure specifiche e di ricovero per riprendersi dal trauma del parto. Se poi, come spesso accade, il bambino viene trasferito in una struttura specializzata lontana, possono trascorrere anche molti giorni prima che sia possibile il primo incontro con il figlio. E’ in questa fase che il ruolo del padre diviene preponderante. E’ infatti il padre a doversi confrontare con la situazione. Nella maggior parte dei casi è lui il primo a vedere il bambino e a dover prendere immediatamente decisioni difficili, (ad es. dare l’assenso affinché il piccolo venga sottoposto alle cure di terapia intensiva). Spesso accade che sia costretto ad allontanarsi perché la situazione richiede che il bambino debba essere accompagnato in un centro specializzato in Neonatologia.
Il padre vive in una situazione di grave difficoltà. Non può restare accanto alla moglie/partner e, contemporaneamente stare vicino al bambino per avere le prime informazioni dall’équipe medica. Nella assoluta incertezza sulle condizioni del figlio deve affrontare anche la paura della morte perché vede il figlio in condizioni gravissime. La situazione è resa ancora più difficile dal fatto che deve svolgere anche una funzione di filtro delle notizie per rispondere alle richieste dei componenti del nucleo familiare, soprattutto quando vi sono altri figli, oltre alle varie incombenze della vita familiare e la ripresa della propria attività professionale.
Il vissuto è drammatico: nonostante le sue emozioni e le sue paure, il padre, secondo alcune ricerche (Tracey, 2010) tende a mascherare le proprie emozioni, le vive in modo più silenzioso: le emozioni non trovano uno “sbocco espressivo, perché egli deve dimostrare di riuscire a non soccombere sotto il peso dell’evento traumatico”.
Ma poi, nella maggior parte dei casi di prematurità, il bambino inizia ad manifestare un graduale miglioramento del suo sviluppo neuromotorio, risponde meglio alle stimolazioni esterne, i suoi movimenti aumentano nella frequenza, apre gli occhi. Per i genitori si inizia un graduale e progressivo recupero delle funzioni genitoriali. Ed è anche la fase in cui padri e madri possono finalmente prendere in braccio il figlio, che viene “estratto” dal nido di vetro. E’ la fase denominata “marsupioterapia”, che consiste nel porre il bambino nudo tra i seni della madre in posizione verticale, in modo che si crei il contatto “pelle-pelle” con il seno all’interno di un marsupio costituito dalla copertina o dagli indumenti materni. E’ un contatto più intimo che ricrea l’esperienza intrauterina prematuramente interrotta: suoni, odori, benessere emotivo battito cardiaco.
Anche in questa fase del “pelle a pelle”, il ruolo del padre è fondamentale. Infatti, studi approfonditi hanno dimostrato gli importanti cambiamenti ormonali e neurobiologici che si presentano nei bambini. Il contatto pelle a pelle con il padre è efficace tanto quanto quello con la madre, sia nell’aumentare la temperatura dei piccoli che nel migliorare le misure biofisiche del dispendio energetico del bambino, nell’elevare i livelli di glicemia significativamente più alti rispetto ai bambini che invece sono in incubatrice, nel manifestare livelli più bassi di cortisolo salivale. Altro elemento importante: nel rapporto pelle a pelle con i padri, i piccoli smettono prima di piangere ed è più facile confortarli semplicemente stringendoli al petto. Il contatto fisico – si è dimostrato – favorisce il prolungamento del sonno, il miglioramento dei parametri respiratori e della funzione cardiaca. Ma anche i padri acquisiscono vantaggi da questa metodica. Infatti nel contatto pelle a pelle con i propri bambini nati pretermine sviluppano una cura e un approccio più sensibile nei confronti dei loro piccoli e si mostrano più collaborativi anche in casa. Si sentono meno stressati e meno ansiosi.
Con la dimissione del bambino nato prematuro, inizia la nuova storia familiare, forse con nuove ansie, sicuramente con una nuova consapevolezza del ruolo genitoriale. Padre, madre e figlio hanno affrontato un percorso difficile, irto di dolore, ma ne escono vincenti. Soprattutto il piccolo, che nonostante la sua condizione di gravità iniziale, dimostra di essere un vero “guerriero”, capace di affrontare e superare difficoltà immensamente più grandi di lui, con tenacia e con forza. La sua “vittoria” è un vero e proprio inno alla vita.
Sociologa dell’educazione. ISP Roma
[1] A seconda della nascita sono suddivisi tra estremamente prematuri (partoriti prima di 28 settimane di gestazione e con un peso inferiore ai 1.000 grammi), molto prematuri (partoriti fra la 28a e prima della 32/ma settimana di gestazione), moderatamente prematuri (partoriti fra la 32a e prima della 34/ma settimana di gestazione e con un peso inferiore ai 1.500 grammi), pretermine tardivi 5-14(partoriti fra la 34/ma e prima della 37/ma settimana di gestazione e con un peso inferiore ai 2.500 grammi).
[2] In Italia sono operativi 241 reparti di Patologia neonatale e/o Terapia Intensiva Neonatale, di cui il 54,2% al Nord, il 22,8% al centro ed il 32,0% al Sud. Sono considerate strutture di eccellenza molto apprezzate a livello internazionale.
[3] Anche in Europa si evidenziato differenze sostanziali tra Paesi. Ad esempio in Austria, Belgio e Portogallo l’incidenza dei parti prematuri è molto più alta che negli altri Paesi.
[4] Fanno eccezione le donne in stato di gravidanza che hanno contratto il Sars- Cov-2, in cui la prematurità ha avuto un’impennata, con il 19.7% di nascite pretermine (Registro nazionale Covid-19 istituito dalla Società Italiana di Neonatologia, dati aggiornati al 27 luglio 2020)
- Sociologa dell’educazione. ISP Roma.