Anche questa volta gli spunti sui quali riflettere nell’Editoriale erano molti: c’erano le polemiche seguite alla sentenza della Cassazione che ha detto “basta” al criterio del tenore di vita precedente nel divorzio; c’erano alcune interessanti pronunce di merito che toccano i temi delle denunce strumentali di abuso sui figli in occasione di separazione fra coniugi. Altre sentenze riguardano la PAS, sull’onda della fondamentale sentenza di Cassazione – la n. 6919 del 2016 – che ha posto fine alle inutili diatribe sulla scientificità o meno di questa “sindrome”, stabilendo tout court che il giudice di merito deve verificare (e sanzionare) l’esistenza di comportamenti atti ad allontanare il figlio, fisicamente e moralmente, dall’altro genitore, “a prescindere dal giudizio sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia”. C’era anche la polemica scaturita dalle “linee guida” emanate dal Tribunale di Brindisi sulla applicazione della Legge 2006/54, la tanto discussa legge che introdusse l’affido condiviso, che ha infiammato magistratura, avvocatura ed esperti e di cui si è parlato nel numero scorso del notiziario.
Tuttavia, mi è sembrato giusto affrontare con i lettori un tema meno specifico, lontano dal diritto e dalla separazione che pure toccano dolorosamente tanti genitori. E’ il tema della paura. Quella sensazione di insicurezza che si insinua, subdola, nella vita di tutti i giorni da quando il terrorismo di matrice islamica (e naturalmente così dicendo non c’è alcuna condanna della religione islamica correttamente interpretata) ha deciso la sua “crociata” al contrario, quella contro gli “infedeli”. Non c’è solo il terrorismo ad alimentare la paura: c’è la cronaca nera, ricca di efferatezze e di immagini truci, c’è la xenofobia serpeggiante che fa da contraltare – quando non è razzismo puro – al dramma (e al problema, certo) dell’immigrazione con le sue scene di disperazione e sofferenza. E poi la violenza dell’uomo sulla donna (esiste anche il contrario) il bullismo, oggi anche femminile…
Non importa che le statistiche mostrino per molti reati una diminuzione. La paura ci tocca tutti, come genitori e come nonni, e ci impone di affrontare con i nostri figli e nipoti una serie di interrogativi e di comportamenti. Che si riducono sostanzialmente a due: se e quanto tenere lontani i bambini dalle notizie che quasi quotidianamente parlano di stragi, bombe, kamikaze, barconi che affondano (e bambini che annegano) e violenze di ogni genere; come “distillare” queste notizie, che inevitabilmente dopo una certa età trapelano, ed evitare che l’angoscia, l’insicurezza, la paura si trasmettano ai nostri figli e ai nostri nipoti turbandone la serenità con esiti talvolta anche gravi. Se un tempo per questa funzione sociale e educativa si sarebbe pensato al padre, quale tramite tra famiglia e società, oggi evidentemente il compito spetta a entrambi i genitori, anche se forse, specie in una certa fascia di età, l’identificazione con il genitore “forte” – le virgolette sono assolutamente necessarie – lascia ancora al padre un margine di maggior rilievo.
Non è un compito facile, proviamo a distinguere, con l’aiuto degli esperti, e a tracciare alcuni punti fermi. Anzitutto non può esistere una regola uguale per tutti e l’età conta: un bambino di cinque o sei anni non ha la stessa capacità critica di uno di dieci o undici, gli stessi strumenti di elaborazione intellettuale ed emotiva. Ma conta – e forse ancora di più – l’indole del bambino, il suo carattere, il suo temperamento. Ci sono bambini particolarmente sensibili e bambini che appaiono più corazzati (ma attenzione: anche un genitore può commettere errori nel giudicare questo aspetto). La “resilienza” – termine oggi molto in voga che indica le capacità di resistere ad una avversità, ad un trauma mettendo in gioco le proprie risorse e reagendo nel modo più opportuno – varia notevolmente da soggetto a soggetto (chi volesse approfondire questo aspetto può leggere, fra i molti testi disponibili, Il bambino resiliente, di Marco Casonato e Stella Di Milia, Editore QuattroVenti, Urbino 2010). Di tutto ciò bisognerà tener conto. Alcune regole sono invece di carattere generale: evitare che i bambini assistano a programmi che mostrano scene cruente (e purtroppo i notiziari che vanno in onda all’ora di cena ne sono spesso ricchi). Si obietterà che oggi sono molto diffusi anche fra bambini giochi elettronici basati su guerra e violenza (cattiva abitudine, secondo me), che l’infanzia non è più quella “innocente” di un tempo, che è giusto che i bambini “sappiano”. Ci sono genitori che non pongono filtri, non si curano troppo di ciò che i figli piccoli vedono e sentono. A mio avviso è un grave errore. I bambini devono “sapere” nella giusta misura e nel giusto modo e i genitori hanno proprio questa delicata e enorme responsabilità.
Dopo la recente strage di Manchester, il quotidiano la Repubblica ha dedicato quattro pagine (L’orrore spiegato ai nostri figli, in la Repubblica 24 maggio 2017) affidando tre aspetti del tema rispettivamente allo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati (quello di Cosa resta del padre e Il complesso di Telemaco), allo psicologo e psicoanalista Massimo Ammaniti, ordinario di Psicopatologia dello sviluppo all’Università “La Sapienza” di Roma, e allo scrittore Eraldo Affinati. Possiamo sintetizzare l’intervento del primo con la parola d’ordine “resistere alla tentazione della chiusura”. Come? “Non avendo paura, rifiutando l’angoscia, respingendo la rassegnazione”. Formula giustissima (Recalcati parla di “responsabilità enorme”) ma che ci ripetiamo ogni volta dopo ogni attentato e ogni strage.
Altri aspetti affronta il messaggio di Affinati: sfuggire alla logica della vendetta (“sale sulla ferita”), “non fare di tutta l’erba un fascio”, non perdere il favore dell’accoglienza nei confronti degli immigrati, rifiutare ogni logica di divisione.
Ammaniti, infine, affronta il nostro interrogativo: parlarne con i figli? E come? Affrontare questo argomento è secondo lui “inevitabile”, anche perché a una certa età è impossibile sfuggire alle immagini dei notiziari televisivi o dei giornali. Del resto, sappiamo ormai tutti che non si guarisce di una paura, di un turbamento per qualcosa che ci ha fatto male, di un trauma, nascondendo la testa sotto la sabbia, ovvero rimuovendolo, ma esprimendolo: con le parole, il disegno, il racconto, la mimica, il gioco, l’attività fisica… e in mille altri modi. Un conto, però, è parlarne – in funzione di “filtro” e di catarsi – un conto permettere ai bambini di assistere ripetutamente alle immagini televisive che mostrano panico, fuga, feriti, soccorsi, sparatorie. Ammaniti non ha dubbi: spegnere il televisore quando ci sono i notiziari. Nel suo articolo si ricorda la strage di Oklahoma City del 1995, in cui morirono più di cento persone, che fu seguita dalle emittenti locali 24 ore su 24. Molti bambini lasciati a lungo davanti al video mostrarono, nei mesi successivi, stati di ansia e paura, incubi notturni e addirittura sintomi post-traumatici da stress simili a quelli di bambini che avevano perso un familiare nell’eccidio. Ai nostri bambini bisogna spiegare che a volte “ci sono persone arrabbiate e che odiano gli altri perché non sopportano come noi viviamo e come noi pensiamo” e ricorrono anche alla violenza. Meglio non usare termini generici come “arabi” o “islamici” e non definirli “pazzi” (anche, direi, per non ricadere in quel “bisogno di un nemico” che è sempre presente nel fondo più oscuro di ogni uomo). La spiegazione deve andare di pari passo con la rassicurazione. I piccoli devono stare tranquilli perché attorno a loro c’è una rete di familiari che li protegge, a partire dai loro genitori. E poi – continua lo psicologo – ci sono poliziotti e carabinieri, soldati… insomma tante persone che fanno la guardia (dare il senso di una società unita e forte).
Un ultimo suggerimento riguarda la scuola: gli insegnanti possono dare un contributo importante ricordando come spesso, nella Storia, popoli, paesi, persone abbiano dovuto affrontare minacce e violenze, ma come sempre siano riusciti a sconfiggerle quando si sono stretti assieme e la paura non ha preso il sopravvento.
Se parlare è importante, ascoltare non lo è meno. Lawrence Cohen, noto psicologo e psicoterapeuta americano, raccomanda in simili circostanze di “ascoltare molto più che parlare” (regola aurea del trattamento psicoanalitico). Farsi raccontare cosa sanno già i bambini (di solito, vi assicuro, più di quello che gli adulti pensano), rispondere con frasi breve e sincere. Un suggerimento di Cohen è quello di coinvolgere i bambini – se sono abbastanza grandi e propensi – nell’aiuto alle vittime, con raccolta di fondi, giocattoli, abiti… Questo, oltre a sviluppare la solidarietà, riduce il sentimento di impotenza. (Lawrence J. Cohen, Le paure segrete dei bambini, URRA Feltrinelli, Milano 2015).
* Presidente dell’I.S.P.