di Maurizio Quilici *
Sono passati più di due mesi da quando Giulia Cecchettin, 22 anni, è stata uccisa dal coetaneo Filippo Turetta, con il quale aveva avuto una relazione. Era la 105/ma donna uccisa da un uomo nel 2023. Alla fine dell’anno il numero sarà salito a 118 donne, di cui 63 uccise dall’ex partner. La brutalità del gesto, l’assurdità delle motivazioni (alla radice sempre le stesse) la settimana di ricerche che ha tenuto col fiato spesso l’intero Paese hanno scatenato su quel delitto una tempesta mediatica con pochi precedenti nella lunga serie dei femminicidi.
L’emozione, la rabbia, la partecipazione al dolore di quel padre e di quella sorella hanno prodotto reazioni e commenti “a caldo” spesso avventati, spesso poco lucidi, spesso pretenziosi. Come sempre in questi casi psicologi, giuristi, sociologi, esponenti della cultura hanno detto la loro, cercando spiegazioni e motivazioni, proponendo possibili soluzioni.
Dunque potrebbe apparire presuntuoso avventurarci su questo terreno, drammaticamente coinvolgente e per molti versi insidioso, dove gli stereotipi la fanno da padroni e i binari del “politicamente corretto” sono ferrei. Tuttavia lo farò, cercando di parlare sottovoce ma proponendo alcune riflessioni che pure competono ad un Istituto che si nomina “di Studi sulla Paternità”. La paternità, infatti, o meglio la sua deformazione negativa, il patriarcato, viene regolarmente chiamata in causa quando si cerchi di individuare le cause di questi delitti.
Non mi addentrerò nel mare magnum delle teorie sulla violenza e sul rapporto fra il genere maschile e quello femminile, non citerò le “pulsioni” di Freud (ma citerò il padre della psicoanalisi a proposito dei genitori), gli studi sull’aggressività e sulla violenza di Dollard, Lorenz, e più di recente di Vittorino Andreoli, o quelli “classici” sul passaggio dal bambino al delinquente di Sheldon e Eleanor Glueck (sono solo alcuni esempi di una nutrita bibliografia). Voleremo più in basso e ci guarderemo semplicemente attorno.
Forse, prima di azzardare ipotesi causali e di soluzioni, sarà bene precisare alcuni dati statistici che possono servire a inquadrare il fenomeno dei femminicidi (mentre scrivo, noto che il correttore non è aggiornato al pari della Crusca, o dell’enciclopedia Treccani che ha inserito il termine e lo ha scelto come “parola dell’anno 2023”, e sottolinea in rosso questa parola) in un’ottica più generale. Mi servo dei dati riportati in un articolo del sociologo Arnaldo Spallacci, nostro socio e assiduo collaboratore, pubblicato su L’Ordine, inserto culturale del quotidiano La provincia di Como, il 3 dicembre scorso. Nonostante la frequenza con la quale si ripetono le uccisioni di donne in Italia (sei nei primi 15 giorni di quest’anno, di cui quattro per mano del marito), il nostro Paese non è ai primi posti in questo genere di delitti, anzi. Nel 2021 (ultimi dati Istat) l’Italia risultava al 21/mo posto per gli omicidi volontari, con una media, per le vittime donne, di 0,39 omicidi ogni 100mila abitanti, contro una media di 0,60 fra i 23 Paesi della UE. Non che questo ci rallegri più di tanto, ma può servire a darci consapevolezza della estensione e gravità di un fenomeno che non è solo legato alle relazioni di genere, alla cultura, ai disagi psicosociali del nostro Paese.
Una statistica brutale come questa porta a reazioni comprensibili, ma a volte scomposte. Come quella – tipica di certe frange di femminismo radicale – che identifica tout court il maschile con la violenza, la sopraffazione, il dominio. Maschio = violenza. La violenza come connotato insito nella natura maschile, come patrimonio genetico di genere, perciò sostanzialmente ineliminabile. E’ una saldatura inaccettabile, che aggrava il solco di genere che purtroppo contraddistingue ancora molti Paesi detti “civili”. Una simile concezione del maschile affonda le sue radici nella antropologia della preistoria, quando l’uomo aveva il compito precipuo di cacciare e pugnare (ma pare che anche le donne che non dovevano accudire la prole cacciassero e combattessero) e poi giù giù per la Storia, dove al maschio era richiesta la necessaria dose di violenza per gestire le guerre che hanno sempre seguito la storia dell’umanità e sono sempre state gestite al maschile.
Nei secoli questa specificità si è, mi pare, ben attenuata. Gli uomini hanno scoperto la dolcezza e la tenerezza (si sono “maternizzati”, o “femminilizzati”, come si dice) le donne – sia pure in misura minore rispetto agli uomini – vestono la mimetica e combattono sui campi di battaglia. Le cose sono in buona parte cambiate, anche se forse la natura umana è rimasta identica a quella dell’età della pietra e quella diversità apparente, quella umanità raggiunta è solo una fragile sovrastruttura, destinata a crollare non appena un evento demolitore – come appunto una guerra – ci riporti indietro nel tempo. Come scrive lo psicoanalista Luigi Zoja a proposito della violenza – specie quella sessuale del maschio – il centaurismo (non conoscere differenza tra vita sessuale e violenza sessuale) “dorme nell’inconscio collettivo: ma, in assenza di limiti efficaci, può tornare a manifestarsi, annullando in un attimo millenni di civiltà” (Luigi Zoja, Centauri. Mito e violenza maschile, Laterza 2010, pag. 15). Ma questo è un dubbio eterno ed enorme, del quale non possiamo farci carico. E se ci confrontiamo con l’oggi, e non con la preistoria, il discorso maschio = violenza non regge più. E’ un discorso che offende milioni di uomini che la violenza la aborrono, e molti dei quali sono impegnati a combatterla, come ha dimostrato l’ampia partecipazione maschile alle manifestazioni contro il sessismo e il maschilismo (oggetto di stupido sarcasmo da parte degli irriducibili machos).
Il rifiuto del maschile (come la misoginia) è un grande, stupido errore. Molti anni fa, nel sud dell’Italia, fui invitato a partecipare ad un convegno organizzato da un’associazione femminile (e femminista) che si occupava di assistenza a donne maltrattate. Per alcuni anni l’associazione era stata tutta al femminile: psicologhe, psicoterapeute, assistenti sociali donne, avvocate… Sembrava giusto che gli uomini, autori di quegli abusi, non dovessero comparire. Così facendo, però esse perpetuavano un solco, un odio, un senso di rivalsa o, nel migliore dei casi, di rifiuto. Le donne assistite avevano spesso figli piccoli, che rischiavano di assorbire la stessa atmosfera. Furono proprio i bambini a suscitare il cambiamento, dopo che le psicologhe ebbero colto nei piccoli i segni di una mancanza: la mancanza di una figura maschile, di un sostituto paterno finalmente in chiave positiva. Fu deciso di cambiare registro (contro il parere di alcune) e di introdurre gradatamente figure maschili che costituissero un modello riparatore per quei bambini e per le loro madri. Attraverso la mia persona si voleva l’opinione del nostro Istituto. Non dovetti faticare a trovare le parole per esprimere il mio totale apprezzamento a chi aveva preso questa decisione, intelligente e scevra di pregiudizi.
Ma torniamo alla violenza dei femminicidi. Dove possiamo trovarne le cause? Diciamo subito una cosa che dovrebbe essere ovvia ma evidentemente non lo è: non esiste una causa, esistono tante concause, alcune delle quali possono essere più o meno significative in base alla storia personale della persona. Vediamone alcune, fra le tante che vengono citate. La famiglia, anzitutto. Certo, come non considerare la famiglia, agenzia primaria di educazione? Come non considerare che gli insegnamenti di padre e madre (ma soprattutto l’esempio, perché il trabocchetto del “doppio messaggio” è sempre dietro l’angolo: ti dico che si deve fare così, ma io faccio il contrario) sono fondamentali? Anche qui, però, con le dovute riserve: perché oggi la famiglia è stata in buona parte soppiantata da altre fonti di forti messaggi: il gruppo dei pari, la TV (ancora capace di lanciare messaggi negativi con i suoi programmi violenti o di spazzatura culturale) i social con la loro pervasività (si pensi alle recenti vicende che hanno coinvolto influencers come Chiara Ferragni, o alle rischiose intromissioni di TikTok)… E poi perché, per quanto contino l’ambiente familiare e l’educazione dei genitori, c’è sempre un imponderabile fattore soggettivo e genetico e mai si potrà stabilire un meccanismo automatico di causa-effetto.
Ma a proposito di genitori, perché non ricordare anche che da sempre il rapporto tra il figlio maschio e la madre è molto particolare? Troppo spesso si dimentica un dato inequivocabile: maschi arroganti, prepotenti, viziati sono il frutto di una mal-educazione più materna che paterna. Troppo mamme – specie in area mediterranea – pongono il figlio maschio su un piedistallo, ne fanno un “reuccio” da ossequiare e soddisfare in ogni capriccio, lo investono di una venerazione ancestrale soffocante, sognando per lui – con evidente meccanismo proiettivo – ciò che la condizione di donna ha impedito loro (compresa la conquista di molte donne, cosa di cui certe mamme si compiacciono con tenerezza e ammirazione).
In troppe famiglie italiane le madri attivano ancora oggi una discriminazione di genere nei confronti dei figli. La bambina – o la ragazza – sarà tenuta ad aiutare nei lavori domestici, a occuparsi della casa e dei fratelli piccoli, incombenze dalle quali sarà esonerato il maschio. Così si perpetua un modello da introiettare nel corso dello sviluppo, che porterà i suoi malefici frutti più tardi. Ha scritto Anna Maria Ortese: “Le madri furono donne aggiogate all’uomo, e raramente trasmisero a figli e figlie la libertà di essere – indipendentemente dal fare e dal possedere; trasmisero il segreto e l’orgoglio di essere indipendentemente da quella di avere. (…) E si parlò di amore e di figli come di cose, di proprietà, di gestione”. (Anna Maria Ortese, Le piccole Cose, Adelphi 2016, pag. 55).
Figli come proprietà da gestire, figli come compensazione e proiezione. Non si tratta, per così dire, di uno scarico di responsabilità. E’ chiaro che anche i padri hanno le loro colpe, se è vero che la propria identità di genere si costruisce per analogia con il genitore dello stesso sesso e per contrapposizione con il genitore di sesso opposto. Anche loro sono un modello (costruito in buona parte sull’atteggiamento della propria madre, in un circolo purtroppo vizioso) e se, per altro verso, mostrano prevaricazione, controllo, dominanza o disprezzo nei confronti della propria moglie o compagna saranno un insegnamento che darà inevitabilmente pessimi frutti. Per non parlare di quella “congiura” genitoriale che oggi molti padri e madri attuano nei confronti dei figli (in numero sempre minore, sempre più “unici” e perciò oggetto di enorme investimento affettivo) evitando loro accuratamente ogni delusione e frustrazione e ostacolo e creando così futuri “mostri” potenziali che reagiranno in modo scomposto, depresso o forse violento quando incontreranno un “no” all’esterno della famiglia.
Fatemi citare ancora un passo dello scrittore Max Frisch, tratto da un libro degli anni ’50 (deciderete voi se ancora attuale o meno): “Altre donne (…) hanno la maternità e, avendo prima sopportato l’uomo come necessario elemento fecondatore, lo scavalcano poi e trovano la felicità nei figli, che per loro diventano la cosa più importante (…); e non sanno più parlare altro che dei figli, dei loro figli, anche quando apparentemente parlano dei figli altrui e rinunciano a se stesse per potersi meglio accarezzare nei loro figli, cosa che poi prendono per amor materno, per dedizione e sacrificio e alla fine magari anche per educazione dei figli. Naturalmente non è che puro narcisismo”. (Max Frish, Stiller, Mondadori 1980, pag. pag. 100) Frish era uno scrittore, ma prima di lui Freud aveva detto le stesse cose: “L’amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti la sua antica natura”. (Sigmund Freud, Introduzione al narcisismo, Boringhieri 1982 pag. 461).
Tanti sono stati autori e autrici che hanno studiato questo particolare aspetto del rapporto fra i generi. Almeno una va ricordata: la pedagogista Elena Gianini Belotti, che per 20 anni diresse a Roma il Centro Nascita Montessori. Scomparsa nel 2022, Belotti ha sempre sostenuto che le differenze caratteriali fra maschi e femmine non sono innate, ma frutto di condizionamenti culturali subiti fin dai primi anni ad opera, in primis, dei genitori. “Il maschio spacca tutto è accettato”, scrisse, “la femmina no”. Questo porterà in seguito l’aggressività del bambino “ad essere diretta verso gli altri”, mentre la bambina diventerà autoaggressiva “per aderire al modello che la società impone e che la vuole incanalare verso la debolezza, la passività, la civetteria”.
Poi c’è la scuola, altra importante agenzia educativa. Che ha sulla famiglia una preminenza… cronologica. Perché è lei, la scuola, che contribuisce a preparare i futuri genitori; è a lei che tocca gettare le basi di una costruzione che mostrerà i suoi frutti in futuro. Un bambino che non trova in famiglia i giusti modelli di comportamento e che la scuola non sa educare al rispetto degli altri e ad una equilibrata concezione dell’amore non potrà essere un buon genitore. E’ un cane che si morde la coda? Direi piuttosto un circolo virtuoso che ha inizio sui banchi di scuola: alunni socialmente educati saranno buoni genitori educanti.
Ma oggi che rispetto possono insegnare (e pretendere) genitori in balia di figli prepotenti, viziati e maleducati? O insegnanti privi di autorevolezza, continuamente contestati da allievi sempre spalleggiati da genitori acquiescenti e talvolta aggrediti da questi stessi genitori? Nella prima metà del secolo scorso Albert Einstein osservava che “attraverso il moderno sviluppo della vita economica, la famiglia, come portatrice della tradizione e della istruzione, si è indebolita. La continuazione e la salute della società umana dipendono quindi in grado ancora più elevato che in passato dalla scuola”. Parlava di un’altra epoca e di un’altra realtà sociale, ma siamo certi che questo non valga ancora oggi e nel nostro Paese?
E ancora c’è chi dà tutta la colpa alla politica. Certo la politica propone modelli, non sempre educativi. I venti anni di berlusconismo – olgettine e bunga-bunga – non hanno mostrato una concezione proprio edificante della donna, riflettendosi su programmi televisivi di bassissimo livello dove il compiacimento per il trash era (e a volte è) l’unica regola e dove il corpo della donna è spesso mercificato.
Scomparso l’uomo politico, il trash è rimasto, il livello infimo di certi programmi televisivi pure, accompagnato dalla più sfrenata “libertà di espressione” che permette al rapper Emis Killa di cantare canzoni che dicono “Preferisco saperti morta che con un altro. Vengo a spararti”. E ancora: “Voglio vedere la vita fuggire dai tuoi occhi, io ci ho provato e tu mi hai detto no. E ora con quella cornetta ti ci strozzerò”. Sulla stessa falsariga le canzoni di altri giovani rapper nelle quali la donna è rappresentata come un puro oggetto sessuale.
C’è un altro aspetto che si presta ad equivoci. Il gesto dell’uomo che uccide una donna visto come espressione di potenza e di potere, affermazione di dominio, esaltazione di forza. Questa è solo la verità esteriore. Come sempre, ci insegna la psicologia, c’è una verità implicita, nascosta, da svelare. Io credo che questi uomini assassini stiano mostrando in realtà la loro debolezza, insicurezza, la loro estrema fragilità emotiva. Quale uomo maturo, equilibrato, sicuro di sé, ucciderebbe una donna perché non sopporta l’abbandono, o perché la vuole “tutta e solo per sé”? Nella sua rubrica sul Venerdì (1 dicembre 2023) Natalia Aspesi si chiede: “… [gli uomini] sono così fragili da aver bisogno di usare ciò che gli resta, la forza dei muscoli, per ottenere ciò che vogliono”? Temo di sì: fragili, deboli, disorientati, insicuri, incapaci. E sia chiaro: non è un’attenuante! Pochi giorni dopo, sulle pagine dello stesso settimanale, Lidia Ravera scriverà di “derive di un patriarcato morente e perciò più violento”. Anche Emi Bondi, Presidente della Società Italiana di Psichiatria, in una intervista a Repubblica (1 dicembre 2023) dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, parla di “fragilità dei ragazzi” come di un “aspetto ancora troppo trascurato” e dei ragazzi di oggi, soprattutto i maschi, “più fragili e immaturi”.
E poi c’è, come ho detto all’inizio, il continuo richiamo al patriarcato. Mentalità patriarcale, comportamenti patriarcali, violenza patriarcale… Ne parlano tutti come di una cosa scontata, ma è proprio così? Il patriarcato è esistito in varie forme e nella nostra Storia abbiamo avuto l’esempio più esteso, prolungato, organizzato e tutelato che si possa immaginare: quello del paterfamilias nell’antica Roma. Caratterizzato da una grande rigidità, il patriarcato ha cominciato a vacillare nel ‘700, ha mostrato colpi di coda nell’ ‘800, si è trasformato nella prima metà del XX secolo, ha subito un tracollo nella seconda metà dello stesso secolo, con l’attacco, a partire dalla fine degli anni Sessanta, verso tutto ciò che rappresentava l’autorità, il padre in testa. Oggi di quello strapotere esiste ben poco. Restano, è vero, tracce dure a morire, lacerti sparsi in zone a volte scontate e a volte invece insospettabili, residui anacronistici destinati, io credo, a scomparire a breve.
In una intervista a la Repubblica del 29 novembre scorso il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi ricorda l’antica uccisione di Ipazia, la scienziata che ad Alessandria di Egitto, fra il IV e il V secolo d.C., fu massacrata da una turba di cristiani perché osava, lei donna, insegnare matematica agli uomini. Per Parisi, questo è “l’esempio di una mentalità patriarcale antica che sopravvive ancora oggi”. Poi, però, lo scienziato osserva che alla Sapienza di Roma, dove ha insegnato, “le cose stanno cambiando. Le posizioni di vertice di oggi riflettono uno squilibrio che viene dal passato. Quando Rita Levi Montalcini andava ai convegni, negli anni ’50, si sentiva domandare di chi fosse la moglie. E rispondeva: sono la moglie di me stessa”.
Dopo aver scritto queste righe e mentre mi accingo a chiudere il numero di ISP notizie, capita ben a proposito un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati che ha per occhiello “Il dibattito sul patriarcato”. In esso Recalcati ricorda la contestazione giovanile del ’68 come “crisi irreversibile (il corsivo è mio, si pesino le parole, n.d.r.) di una intera concezione del mondo che ruotava attorno al simbolo del padre”. Egli ammette bensì che sia rimasta “una brace ancora accesa”, di cui il maschilismo è “un esempio eclatante”, ma a suo avviso si tratta di un “maschilismo residuale, post-patriarcale, che assume delle forme erratiche e non egemoniche, una specie di incrostazione malefica difficile da sciogliere del tutto”. Più avanti Recalcati sottolinea “una tendenza declinista-nostalgica a ricuperare il valore della tradizione patriarcale, dunque una idea di famiglia cosiddetta naturale organizzata sulla differenza ontologica tra i sessi e sull’autorità paterna, una concezione verticistica del potere dello Stato”. Tendenza che egli definisce “il vero fondamento culturale di ogni sovranismo” (Massimo Recalcati, “L’evaporazione del padre”, la Repubblica, 29 gennaio 2024) Ma questo è un quadro – indubbiamente realistico – che mi vede (e penso ci veda) quantomai distante.
E’ vero che le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1946, hanno avuto accesso alla magistratura nel 1963, che solo nel 1981 è stato cancellato dal nostro Codice il delitto d’onore (nel frattempo l’uomo aveva messo piede sulla luna…) e che la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza è arrivata solamente nel 1978. Ma quante cose sono cambiate nel frattempo, a erodere un patriarcato sempre più agonizzante e a restituire alla donna – pur se lentamente e in modo ancora incompleto – un paritario ruolo di genere.
Cosa è rimasto di quella famiglia patriarcale descritta da Scipio Slataper o da Rigoni Sterni, per non parlare di quella che oppresse l’infanzia di Gavino Ledda? Si continua a condannare il patriarcato e contemporaneamente si sottolinea (spesso in termini critici) la “maternizzazione” e “femminilizzazione” dei padri. Evidentemente entrambi i fenomeni sussistono: il primo, fortunatamente, in via di esaurimento, il secondo sempre più diffuso in famiglia, con i suoi benefici effetti e le sue ombre.
E’ evidente, insomma, che il termine “patriarcato” può essere declinato in molti modi e che l’uso che se ne fa è troppo spesso omogeneizzante e confusivo.
E dunque, quali le possibili soluzioni a questo stillicidio di donne uccise per mano di uomini? Come non c’è una sola causa, non c’è una soluzione unica. Genitori, famiglia, scuola, Stato con il suo welfare, mass-media, mercato del lavoro… tutto deve contribuire perché da subito, fin dall’infanzia, si instilli nel bambino il senso dei doveri assieme a quello dei diritti, il rispetto per l’altro senza alcuna distinzione – di sesso, razza, religione, idee politiche… E perché le donne abbiano le stesse opportunità dell’uomo, in ogni campo. Solo con una sinergia organizzata si può sperare in un cambiamento culturale (ché di cultura si tratta, prima ancora che di leggi) il quale richiederà i suoi tempi e dunque andrebbe iniziato con grande attenzione e grande sollecitudine.
Ci sarebbe ancora un altro capitolo in merito, quello della rieducazione degli uomini violenti, con le iniziative svolte e quelle auspicate. E poi ci sarebbe il capitolo degli spazi, anch’essi indubbiamente esistenti, nei quali la donna assume una posizione non di subordinazione ma di privilegio (la maternal preference continua a dominare in molte aule di Tribunale; le false e distruttive denunce di abuso sessuale sui figli in occasione di separazione continuano a imperversare, raramente seguite da conseguenze penali; l’interruzione di gravidanza, legittimo terreno della donna, ignora totalmente il futuro padre con una chiara discriminazione di genere) o quelli nei quali è lei l’autrice di violenza, di solito meno eclatante e mortifera di quella maschile e più sottilmente psicologica. Violenza, quest’ultima, pochissimo studiata, anzi ignorata, con qualche sporadica eccezione come una ricerca svolta in Spagna ed una dell’Università di Siena (e mi vien fatto di pensare a quanto disse la sociologa Elisabeth Badinter, storica figura del femminismo francese, quello moderato, in una intervista del 5 aprile 2004 al quotidiano la Repubblica: “Io non credo che le donne siano più dolci, più generose, più pacifiche degli uomini”). Ma questo presupporrebbe una disponibilità al dialogo e al confronto che chi usa lo strumento dei femminicidi per colpevolizzare l’intero genere maschile non è pronto ad adottare. E allora diciamo anche noi che “da tempo il patriarcato è attraversato da una lotta asperrima che ha come posta in gioco la sua sopravvivenza o la sua sconfitta finale” (Luigi Manconi “Siamo tutti responsabili”, la Repubblica, 29 novembre 2023). Noi ci auguriamo la sua sconfitta definitiva, senza che questo debba significare la scomparsa del maschile e il passaggio ad una società di privilegi femminili. Senza “guerra dei sessi”. E soprattutto senza femminicidi.
- Presidente dell’I.S.P.